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Testamento biologico

Inchiesta sull'eutanasia, in Italia si fa ma non si dice

fine vita 3Da Pagina99 del 3 novembre 2014
di Pietro Pruneddu

Dolce morte In America Brittany ha potuto scegliere quando morire. Si fa anche da noi, ma è tenuta nascosta perché è considerata omicidio volontario. E tutto dipende dalla discrezione del medico. Questo articolo è uscito su pagina99we il 1 novembre 2014

«Come mi accorgo che sto morendo?». La domanda di Marianna è brutale e innocente, come solo un malato terminale può essere. È una donna che sa di non avere più tempo, dopo che un tumore le ha mangiato diciotto mesi di vita. L’ultimo analgesico è più forte, lo ha chiesto lei e i medici hanno acconsentito. Meno di due giorni dopo aver fatto quella domanda se n’è andata.

Marianna è il nome di fantasia di una storia vera, una delle migliaia che ogni giorno, in rispettoso silenzio, accadono in Italia. L’eutanasia, la “buona morte”, nel nostro Paese è ancora un tabù inviolabile. Sotto un’unica parola finiscono dentro casistiche molto diverse: quella attiva diretta (la somministrazione di farmaci che provocano la morte), quella attiva indiretta (quando mezzi usati per alleviare il dolore, come gli analgesici, comportano una morte più rapida), quella passiva (quando vengono interrotti alcuni trattamenti medici, come l’alimentazione forzata, che tengono in vita il paziente).

Hanno in comune una cosa: la legge italiana le vieta, equiparandole all’omicidio volontario o all’omicidio del consenziente, reato che prevede pene da 6 a 15 anni. Ecco perché quasi nessun medico ammette senza paura pratiche diffuse come sospensione dei trattamenti, sedazioni terminali, ordini di non rianimazione.

«L’eutanasia passiva e quella indiretta vengono praticate tutti i giorni», racconta a pagina99 un’anestesista con 30 anni di esperienza che preferisce rimanere anonima. «Spesso sono i pazienti che me lo chiedono, a volte i familiari. E allora mi astengo dal fare certe cose. Dò loro la morfina per contenere il dolore, la benzodiazepina per farli dormire. Oppure dò acqua e zucchero, così non interrompo l’alimentazione obbligatoria e allo stesso tempo li aiuto a lasciarli morire».

Nel 2010, lo studio National survey of medical choices in caring for terminally ill patients in Italy ha confermato come in Italia un dottore su due che lavora con pazienti terminali abbia ricevuto almeno una richiesta di interruzione della terapia, e al 23% sia stata chiesta la somministrazione di farmaci letali. Ma se l’eutanasia attiva rimane poco praticata (tra lo 0,5 e il 2% dei casi), quelle indirette e passive avvengono di continuo.

«Quando arriva in reparto un malato di Sla in crisi respiratoria lo ventilo manualmente e mi faccio dire davanti a testimoni se vuole essere intubato, perché in quel caso vivrà per sempre attaccato a una macchina», racconta un dottore a pagina99. «Se lui rifiuta l’intubazione devo avere il coraggio di non fare più niente. Gli lascio la mascherina con ossigeno, gliene do più del dovuto, così va in apnea e smette di respirare. Muore addormentato, senza soffrire. Si può chiamare eutanasia questa? L’ho ammazzato? O gli ho evitato una sofferenza inutile? Si guarda sempre il lato legale e non la volontà di chi soffre. Una paziente mi maledice ogni giorno per averla intubata. I parenti l’hanno convinta a farsi attaccare al ventilatore. E io ho fatto così».

Secondo l’Istituto Mario Negri di Milano, circa 90 mila malati terminali muoiono ogni anno. Il 65% di questi pazienti, aggiunge l’Associazione Luca Coscioni, si fa aiutare dai medici per smettere di soffrire. Gli inglesi la chiamano euthanasia by the back door, della porta sul retro. Da noi gli è stata affibbiata un’etichetta ancora più infamante: eutanasia clandestina. «L’ipocrisia è che si tratta solo di una questione terminologica. Se parli di eutanasia ti mettono in galera», spiega a pagina99 un medico rianimatore. «Tanti pazienti mi chiedono di farla finita. Li tranquillizzo, faccio finta di non vedere ma li aiuto a esaudire le loro volontà. Il personale sanitario viene colpevolizzato, siamo considerati assassini. Viviamo il dramma di queste scelte in solitudine».

In America Brittany Maynard, una ragazza 29enne con un tumore al cervello, ha deciso di morire alle sue condizioni. Le hanno dato sei mesi di vita tra atroci sofferenze. Così ha scelto di andarsene il 1 novembre, dopo il compleanno del marito. L’Oregon è uno dei cinque Stati americani dove i malati terminali possono porre fine alla propria esistenza grazie al Death with Dignity, la proposta di legge che consente di «morire con dignità».

Secondo l’Eurispes, il 64,6% degli italiani è favorevole all’eutanasia (Rapporto Italia 2013). Eppure nel nostro Paese non si riescono a mettere dei paletti legislativi. La prima proposta di legge risale al 1984. Negli ultimi 10 anni ci sono stati 11 abbozzi di legge bipartisan, tutti finiti nel dimenticatoio. Nel settembre 2013 una proposta di iniziativa popolare, voluta dall’associazione Coscioni, è stata sottoscritta da quasi 70 mila firme e depositata alla Camera, dove è ancora arenata da più di un anno. I punti chiave del testo sono la depenalizzazione del reato di eutanasia volontaria, richiesta da paziente con malattia incurabile e aspettativa di vita inferiore ai 18 mesi, e il pieno valore legale del testamento biologico. Quest’ultimo, allo stato attuale, somiglia al registro delle unioni civili. Tanti Comuni, circa 120, lo hanno istituito, ma finché una legge non lo regolarizza non ha alcun valore legale. Al momento esistono altri tre disegni di legge sul tema, tutti nemmeno arrivati all’esame delle commissioni parlamentari.

In Europa, invece, la mappa dell’eutanasia è molto eterogenea. Paesi Bassi, Svezia e Belgio l’hanno legalizzata. Un caso a sé è la Svizzera, dove è consentito anche il suicidio assistito in strutture apposite. Ed è lì, tra le montagne alpine, che molti italiani stanno andando a morire. Nel 2013 sono stati almeno 50, secondo i dati dell’associazione Exit Italia.

In Italia, invece, la situazione è ferma. A giugno hanno fatto scalpore le parole di Giuseppe Maria Saba, ex medico anestesista in pensione, che in un’intervista ha dichiarato di aver aiutato a morire un centinaio di malati: «La dolce morte è una pratica consolidata negli ospedali italiani, ma per ragioni di conformismo non se ne parla». Le stesse cose le aveva dette Umberto Veronesi nel 2005, quando ammise che l’eutanasia clandestina in Italia esiste da anni. «Farmaci comuni in rianimazione come Ipnovel, Propofol o Talofen, hanno effetti sedativi che variano molto a seconda di differenze minime di dosaggio», spiega un giovane dottore a pagina99. «Alcuni colleghi tendono a prolungare la vita al limite dell’accanimento, altri sono più propensi a evitare lo strazio di una malattia ai degenti terminali».

Pochi mesi fa il professor Mario Sabatelli, neurologo del Policlinico Gemelli di Roma, ha dichiarato: «I miei pazienti in fin di vita possono scegliere se continuare a vivere attaccati a una macchina o essere lasciati andare». Il fatto che lavori in un ospedale cattolico ha amplificato l’eco delle sue parole. «L’influenza della Chiesa è soprattutto politica», spiega un’anestesista. «Il consiglio più bello me lo ha dato proprio un prete. Mi ha regalato un libro intitolato Dalla parte del paziente e mi ha detto di mettermi a disposizione della loro volontà. Quella è l’unica cosa che conta».

Fonte immagine: www.partitodemocratico.it

 

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