Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorare la tua esperienza e offrire servizi in linea con le tue preferenze. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie vai alla sezione

Home a buon diritto

Qualche no alla meritocrazia

registro elettronico12-06-2015
Lorenzo Fanoli

Uno degli aspetti principali delle motivazioni a sostegno delle misure sulla “buona scuola” e delle argomentazioni che vengono portate a favore di tale disegno è costituito dall’enfasi sulla meritocrazia che viene diffusa pervasivamente e viralmente.

La meritocrazia è diventata la soluzione di tutti i mali che affliggono il sistema nazionale dell’istruzione e nessuno può dichiararsi contrario ad essa.

Quest’affermazione assomiglia a un altro luogo comune che è ormai assodato quando si parla di immigrazione: “non possiamo dire accogliamoli tutti ”.

Perciò così come penso che si debba lasciare libero accesso alle frontiere da parte di tutti mi dichiaro altresì colpevolmente e pervicacemente contrario alla meritocrazia o, perlomeno, al suo significato ampliamente condiviso, attualmente in vigore.

Per come viene presentato e sostenuto il primato del merito e della valutazione e per il significato che gli viene attribuito vengono utilizzate argomentazioni piuttosto mistificatorie e, in taluni casi, decisamente false, persino anche dal punto di vista di chi vorrebbe una scuola più simile a una azienda. Provo, di seguito a segnalarne alcune.

INDICATORI DI PRESTAZIONE IN STILE AZIENDALE? ANCHE NO
Si afferma che il sistema scolastico e, in generale, tutto ciò che si accompagna all’aggettivo “pubblico” sia scarsamente efficiente , poco trasparente e deresponsabilizzante e che ciò sia conseguenza di una assenza di sistemi di valutazione e di identificazione delle responsabilità.
Perciò si auspica l’avvento di una efficiente cultura della valutazione basata su oggettivi sistemi di indicatori di prestazione sul modello aziendale. La parola d’ordine è “accountability”.

Prescindiamo per il momento dal principio di realtà evitando qualsiasi considerazione sulla possibilità effettiva (e sull’opportunità) di trasformare un istituto scolastico in un’azienda ma ci sono altri motivi poco convincenti.

Purtroppo ciò che ci dice l’esperienza diretta è che non si può assolutamente affermare l’esistenza di una relazione lineare evidente e positiva tra indicatori di prestazione aziendali e previsioni di sopravvivenza o di successo di questa o quella azienda, di questo o quel sistema economico.
Senza dover scomodare il caso dell’Ilva di Taranto che può essere considerato un caso patologico, sono tantissimi i casi di aziende che pur presentando indicatori di prestazione, dati contabili e bilanci bellissimi per anni, sono poi fallite, trasferite all’estero, entrate in crisi.

Al contrario vi sono aziende che pur presentando bilanci e indicatori di prestazione assolutamente fuori controllo hanno goduto della stima e fiducia di investitori, mercati, analisti economico-finanziari, governi e (a volte) persino sindacati, per poi magari veder fuggire con il malloppo rimasto i proprietari.
Più in generale non sembra che i vari sistemi di rating, valutazioni di performance economico finanziare abbiano dato gran prova di sé nell’ultimo decennio.
Direi piuttosto che hanno provocato danni da diverse migliaia di miliardi, minando la stabilità economica dell’intero pianeta.

Forse potrebbe non essere una scelta particolarmente lungimirante quella di un Governo di un qualsiasi Paese che dichiara di voler basare su tecnologie di valutazioni “rating like” i propri investimenti per il futuro (perché il sistema di istruzione è senza ombra di dubbio investimento sul futuro).

Inoltre è bene soffermarci anche su alcune questioni carattere etico-politico.
La mia esperienza ultra decennale di analista di mercato mi dice che gli indicatori di prestazione possono forse aiutare ad avere una prima visione della situazione ma che le variabili principali che tengono in piedi aziende e strutture economiche sono sostanzialmente due:
• La prima condizione è che “chi ci ha dentro i soldi” continui a tenerceli (e in alcuni casi a metterceli);
• La seconda condizione è che dentro e attorno all’azienda ci sia una forte coesione.

A proposito della coesione diversi giovani leoni del management e della consulenza usano tale formula definitoria…”il progetto aziendale per avere successo deve essere condiviso da tutti”.
Il significato fattuale è però un altro: “chi non aderisce al progetto aziendale è fuori e ... naturalmente chi definisce il cosiddetto “progetto aziendale” è chi ci mette i soldi.

La domanda quindi da porsi è sull’opportunità o meno dell’affidarsi a un sistema di governo e valutazione ideato e strutturato ai fini di “chi ci mette i soldi” (che peraltro può anche decidere di non avvalersene per nulla) e sulla possibilità concreta per chi non è d’accordo col sistema vigente di essere espulso.
La risposta è: “sarebbe meglio di no”.

IL MITO DELLA MERITOCRAZIA COME STRUMENTO PRINCIPALE DI MOBILITA’ SOCIALE

Si afferma che in una società non meritocratica la mobilità sociale non esiste.
Secondo questo pensiero la promozione e valorizzazione del merito e delle eccellenze individuali dovrebbe essere il motore della crescita sociale e della redistribuzione della ricchezza che avverrebbe, in questo modo, sulla base dei talenti e non del patrimonio di partenza: “ chi è contro il merito è a favore dell’ingiustizia sociale”. La figura idealtipica di questo approccio sarebbe: “l’uomo che si è fatto sé” con tenacia, talento e impegno.
Ma…è davvero possibile una società fatta da persone che si sono “fatte da sé”? Certamente no.

Innanzitutto bisogna riflettere sui meccanismi attraverso i quali vengono stabilite le regole “meritocratiche”. Possibile che queste norme non corrispondano per nulla alle gerarchie di potere prestabilite al momento in cui vengono promulgate e che, già per questo, non diventino esse stesse uno strumento di consolidamento dei rapporti di forza esistenti?

Ricordo vagamente qualche decennio fa qualche discussione accademica in relazione alla “oggettività” o meno dei test per misurare il quoziente intellettivo. Mi sembra che in molti concordasse sul fatto che comunque tali test fossero culturalmente predeterminati e quindi non sufficientemente capaci di misurare i talenti. Possibile che ora si sia ritornati a prima di allora?

Poi si può riflettere anche meglio sul tema guardando alcuni casi concreti. Se pensiamo al nostro Paese e ai casi di uomini famosi per “essersi fatti da sé” a me vengono in mente tre campioni della categoria: Michele Sindona, Raul Gardini, Silvio Berlusconi. A parte il fatto che i primi due hanno avuto una fine tragica mentre il terzo spero che finisca i suoi giorni in pace, ciò che li accomuna è stata la loro capacità di agire al limite o, magari, ben la di fuori delle regole prestabilite.

Questi sono però casi eclatanti e non possono da soli essere chiamati ad esempio generale.

Allora provo a parlare di cose a me più vicine.
Quando andavo a scuola al liceo avevo due compagni di classe molto bravi sia nelle materie umanistiche sia in quelle scientifiche (anche se la classico di scientifiche ce n’erano poche). Uno dei due viveva nel centro di Milano figlio di professionisti affermati e l’altro a Cusano Milanino figlio di operai. Da grandi volevano fare gli economisti. Entrambi uscirono dalla maturità con il massimo dei voti e si iscrissero alla Bocconi.

Poi il primo divenne professore universitario e poi Ministro e il secondo venne assunto a Standard & Poor’s ma nel 2010 è stato licenziato a 50 anni ed è riuscito a ricollocarsi come magazziniere in una ditta di un amico. Quante storie di questo tipo ognuno di noi conosce?

Quante storie ci sono di persone che uscite con valutazioni di eccellenza nelle scuole hanno poi avuto percorsi professionali divergenti sulla base della classe sociale originale di appartenenza?

Se poi ci vogliamo invece basare sui grandi numeri e le statistiche, sappiamo benissimo che il fattore predittivo principale del livello sociale di approdo in età adulta di una persona è costituito dalla classe sociale di appartenenza in origine. Siamo la società dell’ “uno su mille ce la fa”, gli altri 999 rimangono dove sono nati.

Se apriamo lo sguardo alla storia ci rendiamo conto immediatamente la stagione migliore della mobilità sociale per l’umanità è rappresentata dai 30 gloriosi e in particolare dagli anni ‘70 del XX secolo. Quelli sono stati gli anni nella storia in cui la distanza tra il vertice e la base della società ha fatto registrare il suo minimo.

Forse è una domanda banale e pleonastica chiedersi se tutto ciò sia stato determinato da una improvvisa generazione prima e affermazione poi di un numero impressionante di geni ed eccellenze individuali oppure, invece, il risultato di processi collettivi, di azioni organizzate per la rivendicazione e affermazione di uguali diritti per tutti?

Quindi mi sa che se si vuole che la scuola sia strumento di supporto della mobilità sociale, anche per la libera espressione dei talenti, è più utile che promuova ed esalti lo spirito collaborativo la capacità di agire in modo collettivo piuttosto che strumenti formali di definizione di gerarchie individualizzate.

Se invece si preferisce che la scuola accresca le differenze tra gli individui e le distanze tra chi sta in alto e chi sta in basso allora la meritocrazia può essere un buono strumento.
Però….allora ditelo.

Fonte immagine: www.scuoladapolito.gov.it

Pubblicato: Venerdì, 12 Giugno 2015 14:23