Passaggio a livello: Calma piatta in confindustria
04-05-2015
Ubaldo Pacella
Le polemiche al calor bianco si concentrano esclusivamente, in questi giorni, sull’Italicum. È un tema che, in tutta franchezza, non ci appassiona almeno entro i confini di una polemica greve e pretestuosa alimentata dall’una e dall’altra parte da un sovrano distacco dalla realtà. Siamo in questa visione in ottima compagnia con la stragrande maggioranza degli italiani. Assai lontana da appassionarsi ad un tema che sinceramente sembra avere poco a che fare con i grandi principi della democrazia e molto invece con le piccole lotte di potere di parlamentari e dirigenti di partito.
Poco meno di 70 anni di vita repubblicana stanno lì ad insegnare che le leggi che riguardano direttamente la politica molto spesso falliscono l’obiettivo per il quale erano state pensate. Uno scotto pagato già da De Gasperi nel 1953, ripetutosi successivamente molte altre volte. Evitiamo volentieri di ricorrere a definizioni roboanti. La democrazia in Italia non è a rischio, se lo fosse sarebbe per ben altri motivi che non una legge elettorale facilmente modificabile. Sono i meccanismi interni di funzionamento dello Stato e dell’economia il vero rischio Paese.
Vogliamo pertanto riflettere sulla qualità degli interventi o delle assenze che contraddistinguono Confindustria e più in generale l’intero sistema industriale nel nostro Paese.
Una lunga consuetudine di interessi aggrovigliati tra politica ed impresa in Italia ci spinge a sostenere che mai quest’ultima è stata così lontana e silente rispetto alle politiche economiche del Governo. Lasciamo volentieri ai ricordi più nobili la Confindustria degli Agnelli o dei Pirelli, non possiamo tuttavia esimerci dal constatare come l’attuale Presidente di questa importante associazione sembri più presente sugli spalti dello Stadio dell’amato Sassuolo che nelle pagine dei giornali, nei talk show o sui media nazionali o internazionali. Sarà certo una scelta di equilibrio e low profile ma tant’è segna più che un pacato distacco un silente disinteresse. Gli imprenditori e Confindustria nell’ultimo decennio hanno strepitato molto nei confronti della politica, per vederne riconosciute le ragioni dell’industria, soprattutto per ottenere sgravi fiscali e agevolazioni di ogni sorta.
Ricordiamo, al pari di tanti italiani nonché degli attenti osservatori, le crociate per la cancellazione dell’Irap. Una tassa sul lavoro che a dire di Confindustria metteva in ginocchio le imprese, impediva gli investimenti e danneggiava l’occupazione.
Le scelte di politica economica di Renzi e Padoan sono andate, quasi esclusivamente, proprio nella direzione invocata per anni da Confindustria. Cancellata l’Irap, approvato il Job Act, messo al centro di un’auspicabile ripresa economica il sistema produttivo e il lavoro, constatiamo con più di una punta di amarezza come gli investimenti privati continuino ad essere drammaticamente assenti in Italia.
Siamo consapevoli di avventurarci su un terreno ricco di insidie, viscido e in qualche caso addirittura minato, eppure non possiamo trattenere un grido di impazienza: imprenditori e industriali se ci siete ancora in Italia, battete un colpo!
La crisi economica mondiale ha ripercussioni particolarmente gravi sull’Europa e i Paesi del Mediterraneo. La nostra economia sbilenca era poco competitiva, appannata da oltre vent’anni di stagnazione e da un sistema socio produttivo impantanato entro logiche distorte. È incapace di competere, di premiare il merito, soprattutto di perseguire strategie per produrre valore, ricchezza e occupazione.
La rendita dagli anni ’80 ad oggi l’ha fatta da padrone in Italia. Rendite di ogni tipo: finanziarie, immobiliari, di lobby, dei salotti, dei sindacati, della burocrazia. Un elenco tanto lungo e conosciuto da sollevarci dall’onere di ricordarlo punto per punto.
Industriali, imprenditori e Confindustria si sono proposti, da sempre, come elemento trainante della progettualità sociale e produttiva nel nostro Paese. Se analizziamo a fondo gli studi più specifici dalla Fondazione Leone, allo Svimez a quelli dell’Eurispes o del Censis ci accorgiamo che questa definizione poggia di fatto su basi d’argilla. Gli investimenti privati in Italia sono al lumicino, non solo nell’ultimo decennio. La maggior parte delle imprese, associate o meno a Confindustria, vivono di commesse pubbliche. Sono poco allenate a competere sui mercati internazionali, prediligono i rapporti istituzionali e gli appuntamenti dell’elite salottiere all’incisività dei piani d’impresa e degli studi tecnico-economici. Molte aziende si sfidano più sul piano lobbistico che su quello progettuale.
La dilagante e perversa corruzione, che mina alla base il funzionamento del pubblico in Italia, non avrà corresponsabili oltre ai funzionari fedifraghi e politici corrotti? È possibile che un Paese che vorrebbe essere moderno ed economicamente sviluppato a livello mondiale subisca passivamente un’evasione fiscale annua che oscilla tra i 150 e i 200 miliardi di Euro ed una corruzione che ci vede indietro di decine di posti rispetto ai nostri naturali competitor nella specifica classica della Trasparenza pubblica e dei livelli di corruzione? Scelte rigorose delle imprese e di Confindustria avrebbero dovuto provocare una scossa profonda nel tessuto sociale e produttivo italiano se fossero state orientate esclusivamente verso una concorrenza liberale, trasparente e rigorosa.
L’impressione è che la classe imprenditoriale italiana sia molto lontana dai principi classici dell’economia che già il presidente Luigi Einaudi seppe indicare con solare chiarezza all’alba della storia repubblicana.
Il silenzio di fatto di questi mesi sembra essere dovuto, più che altro, alla mancanza di richieste che Confindustria e imprenditori possono proporre. Molto è stato loro concesso, se non tutto. Nulla o quasi sino ad oggi è stato fatto da loro per il Paese, i lavoratori, la crescita produttiva e la ridistribuzione della ricchezza. È un silenzio imbarazzato quello che viene da Viale dell’Astronomia, poiché molti sanno, ma pochi si azzardano a dirlo o a scriverlo come oggi la classe imprenditoriale italiana nel suo ventre molle tema più di ogni altra cosa il cambiamento, una vera competizione e le liberalizzazioni. Queste ultime infatti farebbero crollare un sistema entro il quale molti “pseudo imprenditori” hanno abilmente coltivato i propri interessi facendo fortuna. Il capitalismo familiare italiano e le regole per esso create da Mediobanca di Cuccia vengono indicate dagli osservatori più acuti come il vizio atavico di un nanismo industriale che tanto pesa sullo sviluppo e la modernità dell’Italia.
Ci saremmo aspettati dal Ministro delle attività Produttive, Federica Guidi, esponente di spicco del mondo confindustriale una grande energia nell’individuazione di nuove linee guida avanzate per il rilancio del sistema socio industriale del nostro Paese. Assistiamo invece ad un andamento ondivago fatto molto più di frenate e di distinguo che di accelerazione e di proposte. Non risulta alle cronache che il Ministro dello Sviluppo Economico sia impegnato ad azzannare ai polpacci il suo collega all’Economia, Pierpaolo Padoan, affinché intervenga per modificare l’attuale struttura del sistema bancario e assicurativo, in modo da facilitare il credito alle imprese e gli investimenti privati. Che dire poi del timore reverenziale osservato dall’alta dirigenza del Ministero di Via Veneto anche verso il più timido accenno di liberalizzazione. Non se ne fa promotore il Ministro a livello politico e, quando qualche modesto provvedimento è in discussione per iniziativa di questo o quel gruppo parlamentare, l’intervento della burocrazia è finalizzato ad ostacolare ogni novità consolidando lo status quo.
Questo atteggiamento va ben oltre i limiti conosciuti della burocrazia italiana, rappresenta un vero e proprio indirizzo strategico. Incidere sulla struttura socio-produttiva del Paese significa avviare un processo che, inevitabilmente, potrebbe toccare interessi consolidati di ampie e potenti ramificazioni di Confindustria. Tanto vale baloccarsi con piccoli interventi che non incidono e non suscitano la forte avversione delle lobby. Un Governo ed un Paese che non riescono a regolare in senso moderno nemmeno i tassisti di Milano, potranno aprire il mercato alla liberalizzazione di grandi imprese, banche e assicurazioni che di fatto detengono il monopolio dei flussi finanziari del Paese? La domanda è retorica, la risposta lapidaria: no!
Le modeste liberalizzazioni conseguite di fatto riguardano solo il mondo del lavoro e l’applicazione dei contratti. Si contrabbanda come efficienza e sviluppo dei sistemi l’assoluta mancanza di regole per il mondo della grande distribuzione. Uno degli effetti deleteri del Governo Monti, proprio quello più asservito alle lobby finanziarie italiane e internazionali. La conseguenza di tutto ciò è che il 1 maggio centri commerciali, outlet e supermercati anche di piccolissima entità restano aperti tutto il giorno. Lo consideriamo un vero sberleffo per un Governo guidato dal PD e dove l’ala di sinistra propugna conflitti epocali solo su questioni di mero interesse autoreferenziale.
Una politica industriale manca da troppo tempo all’Italia. Si fa poco e male, comunque in ordine sparso, senza un’elaborazione di sistema capace di produrre vantaggi strutturali per imprese e lavoratori. La pochezza degli imprenditori italiani si può ravvisare in tutte le crisi industriali di questi ultimi mesi. Non dobbiamo scomodare gli anni passati, basti vedere quanto siano assenti imprenditori e Confindustria in queste settimane. Non c’è una crisi produttiva o occupazionale che veda in campo campioni italiani, magari in cordate internazionali. Ultima in ordine di tempo la vicenda De Tomaso, il cui marchio è stato aggiudicato ai cinesi con un rilancio, sembrerebbe, di soli 10.000 Euro. Possibile che nell’agone imprenditoriale del nostro Paese, talvolta troppo ricco di prosopopea e di pubblicità, non si sia trovato qualcuno disposto a scommettere su una fabbrica italiana, magari per realizzare auto elettriche, come stanno facendo in Francia o in Germania?
L’Italia delle imprese appare sempre più una mongolfiera di propositi, speranze, futuribile che aleggia nell’etere ma non si posa mai in nessun luogo per costruire qualcosa. Si vaticina di città telematiche, di reti energetiche diffuse e non si trova uno straccio di cordata per evitare centinaia di licenziamenti e tutelare almeno il blasone italiano dell’imprenditoria.
Merita un esame approfondito, in altra sede, lo stesso modello organizzativo di Confindustria.
Il palazzo di Viale dell’Astronomia a Roma ospita un coacervo di imprese e di interessi spesso in competizione tra loro. Convivono nella stessa organizzazione quelli che progettano gare d’appalto e quelli che vi concorrono. Molte aree strategiche tutelano interessi contrapposti a quelli di altri segmenti produttivi. Come si combina tutto ciò è alquanto misterioso. Le polemiche restano quasi tutte circoscritte ai corridoi paludati e alle confidenze bisbigliate. Un fatto emerge con solare chiarezza: Confindustria non ha avanzato negli anni un progetto industriale di sistema misurato sulle competenze, necessità e obiettivi dell’Italia.
Ci chiediamo perché nel Paese delle polemiche più avventate nessuno si sia chiesto perché siano iscritte a Confindustria imprese pubbliche di primario livello. Si pensi a Poste e Ferrovie, controllate al 100% dal Tesoro, a Enel, Eni e Finmeccanica la cui maggioranza azionaria resta saldamente in mano al Ministero dell’Economia, solo per citare le più grandi. Le quote economiche sono tutt’altro che modeste, visto che le aziende contribuiscono in base al numero dei dipendenti. Le ultime tre già quotate in Borsa potrebbero addurre giustificazioni, ma le prime due non configurano un finanziamento diretto dello Stato ad una associazione privata?
In passato il prestigio di Confindustria e l’opportunità di inserirsi nei salotti buoni italiani poteva solleticare diversi manager, oggi viene da chiedersi chi ne tragga i maggiori benefici se le aziende pubbliche o i vertici di Viale dell’Astronomia. Ricordiamo che già da qualche tempo la Fiat, attualmente FCA, ne è uscita e resta probabilmente l’unica multinazionale del settore meccanico ad avere un ruolo rilevante a livello internazionale.
La sfida dell’innovazione, della competenza e della qualità in Italia è un calice amaro. Tutti la invocano per gli altri, nessuno la vuole per se stesso. Una regola alla quale non sfugge né Confindustria, né il Governo Renzi, almeno per ora. Il Ministero di via Veneto invece resta avvolto nelle lenzuolate bersaniane che hanno coperto interessi più che sviluppato il mercato, aiutato la crescita e soprattutto dato fiducia ai cittadini e ai lavoratori. Puniti due volte da ristrutturazioni continue e costi lievitati. Questa è la ricetta liberale del nostro Paese.
Fonte immagine: www.resegoneonline.it