Passaggio a Livello: Un Presidente non per caso
02 febbraio 2015
Ubaldo Pacella
Una cosa è certa, è stato eletto alla Presidenza della Repubblica un galant’uomo integerrimo. Sergio Mattarella politico schivo quanto rigoroso e inflessibile nel merito e nel metodo con il quale ha affrontato, in passato, ogni incarico che gli era stato affidato, sino a quello di giudice costituzionale. Dignità, riserbo uniti ad una visione della politica di chiara matrice cattolica, intesa come azione pratica per il bene di tutti. Solidità morale espressa già nelle prime parole dopo la sua elezione nel pensiero rivolto ai problemi e alle priorità di tutti gli italiani, che non sono di certo - mi viene da aggiungere - quelle della politica nostrana.
Il percorso nemmeno troppo accidentato che ha condotto alla sua elezione è una cronaca da riannodare con pazienza, nella quale contano forse più i fatti nella loro essenzialità che i troppi retroscena che fanno da contorno ad ogni scelta o azione che si determina nel nostro Paese, in particolare all’interno della politica. Decenni di tatticismo spregiudicato, di menzogne oscurate e verità non dette hanno lasciato in ogni commentatore, al pari del cittadino più attento il sapore amaro di ricostruire ciò che non si conosce, partendo dall’assunto che le apparenze nascondono, inevitabilmente, una menzogna indicibile. È sufficiente per questo, percorrere a volo d’uccello commenti, ricostruzioni e analisi offerti da tutti i mass media da sabato mattina ad oggi. Vorrei riflettere, invece, su come si è dipanato il filo di un confronto che appare sufficientemente lontano da quelle estenuanti trattative politico-sindacali che nella storia della Repubblica si sono più volte intrecciate con le decisioni importanti e le nomine cruciali per l’elevato grado di responsabilità loro affidato.
La segreteria del Partito Democratico, condotta da Renzi con un’innegabile padronanza, ha scandito tempi e modi assai chiari del confronto con tutte le altre rappresentanze parlamentari. Ogni commentatore riconosce a Matteo Renzi Presidente del Consiglio e segretario del maggior partito di governo il merito e l’abilità di un’elezione senza traumi, il tutto magari a denti stretti perché il “ragazzo” fiorentino con i suoi modi irriverenti, una tracotante dialettica non può che infastidire un sistema paludato, quanto ottuso e conformista come quello del giornalismo politico Italiano.
Ritengo che vi sia tra la vetusta classe dirigente dei partiti e i loro dispensatori di notizie - che siano quotidiani o talk show - una sudditanza inevitabilmente clientelare, costruita magari su reciproci scambi di favore o di presunte notizie, che li piega all’interesse di questo o quel gruppo occorrente.
Torniamo all’elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica italiana. Terminato il primo giro di consultazioni, cui ovviamente si è sottratto il Movimento 5 Stelle, dimostrando una volta di più un cialtronismo inconsistente che pesa sugli atti parlamentari, si è visto come i possibili autorevoli candidati alla presidenza fossero pochi e molto consumati. Profili, a parere di chi scrive, stinti o gravati di una storia personale e politica irta di contrasti e contraddizioni.
Silvio Berlusconi e la galassia che a lui fa riferimento non avevano sufficiente autorevolezza, rispetto ai propri gruppi parlamentari, per proporre un candidato forte e spendibile, scelto tra quelli del campo avverso. Ciò li ha portati a ripiegare su personaggi come Giuliano Amato e Pierferdinando Casini che il premier Matteo Renzi, strizzando l’occhio agli italiani vedeva come fumo negli occhi. Personaggi destinati ad ingabbiarne il progetto politico e a frenarne l’irruenza comunicativa, se non addirittura gli indirizzi parlamentari. È del tutto evidente, anche al più acerbo dei commentatori, come queste candidature sebbene corroborate da intese spurie con eventuali minoranze del PD fossero destinate a rimanere nei bacini di carenaggio senza poter affrontare i flutti dell’emiciclo di Montecitorio.
Matteo Renzi, preso atto dell’inconsistenza strategica degli avversari, si è concentrato sulla scelta di un candidato che saldasse le anime del PD, impegnando la riottosa minoranza del partito a sostenere un candidato di elevato profilo morale più che politico. È del tutto accademico chiedersi se il nome di Sergio Mattarella, nella rosa da tempo dei possibili presidenti, fosse per il segretario del PD la prima scelta. È innegabile invece che egli abbia colto al volo, con l’abilità dello stratega consumato da mille battaglie, il suggerimento venuto dall’autorevolezza riconosciuta di Giorgio Napolitano e benedetto immediatamente da Bersani e dalla minoranza del partito. Si è così ricucito lo strappo interno al partito che aveva obbligato Pierluigi Bersani alle dimissioni nel 2013 e resa evidente quella guerra per bande che si ripropone, soprattutto in Italia, all’interno dei partiti ogni qual volta vi siano leadership deboli, incolori, poco carismatiche. L’obiettivo di Matteo Renzi era poter contare, di fatto, in questo delicato passaggio istituzionale, su un partito che non decidesse di fare l’ennesimo sgambetto al proprio Presidente del Consiglio, alimentando quella sorta di masochismo da cupio dissolvi che pochi giorni prima aveva caratterizzato le scelte di un manipolo di senatori nell’ostacolare il cammino dell’Italicum, offrendo a Silvio Berlusconi l’ennesima occasione per dimostrarsi controparte attiva e coerente di una riforma istituzionale che pure penalizza, almeno nei fatti contingenti proprio il centro destra.
Stretto un cordone di ferro attorno alla candidatura di Sergio Mattarella da parte del PD restava lo scoglio di rafforzarne immagine e presa politica, in modo tale da scongiurare tentazioni o derive revanchiste da parte di parlamentari o truppe cammellate avverse ai disegni di Renzi. Questo è stato in apparenza il passaggio più semplice, favorito dalla pochezza strategica delle varie anime dell’opposizione. La convergenza di Sel su una personalità proba di assoluto valore istituzionale, per di più fortemente gradita alla minoranza del PD è stata tanto rapida quanto scontata. Stessa cosa può dirsi di quel manipolo di parlamentari riferiti a ciò che resta di Scelta Civica per i quali non poteva esservi candidato migliore o più autorevole.
Avute queste conferme, fatto di conto più volte con i numeri potenziali e con quelli realistici si era solidamente oltre il quorum di 505 voti a favore, a quel punto non restava che rompere ogni indugio, anticipare ogni voce e rendere pubblica ed esplicita la candidatura di Sergio Mattarella, cosa puntualmente avvenuta nella serata di venerdì 30 gennaio.
La decisione netta assunta da Renzi, in logica coerenza con tutto ciò che egli e il suo gruppo dirigente stanno facendo da quando è diventato segretario del PD e successivamente Presidente del Consiglio, ha spiazzato le cosiddette opposizioni, sia Berlusconi e il suo entourage, convinti di poter cavalcare l’onda con la squassata barchetta del tatticismo, sia quella del NCD di Alfano perennemente ondivago tra le esigenze di stabilità ministeriale e i richiami delle sirene di Forza Italia.
Era chiaro ormai che, nonostante i troppi rancori presenti in una malmostosa parte del PD, non vi era spazio concreto per sabotare una candidatura autorevole da un lato e lontana dagli schieramenti della politica dell’altro. Questo ha reso evidente, a mio avviso, la pochezza politica del centro destra, incapace di alternative percorribili e vittima della chiarezza e del rigore di una proposta. Sono trascorse così agitatissime nella loro totale inconcludenza le ore della notte, quelle che hanno preceduto la fatale quarta votazione di sabato mattina, 31 gennaio. Avessero riletto le pagine di Manzoni, quelle magistrali sulla notte di Don Abbondio, Berlusconi e Alfano avrebbero potuto, quanto meno parare il colpo favorendo con un largo plebiscito quella che era oramai una scelta ineluttabile. Conviene, infatti, ricordare un’altra caratteristica non meno rilevante del Presidente Sergio Mattarella: la sua sicilianità atipica, che ne ha fatto un figlio, forse un po’ trascurato ma nobile e cavalleresco della migliore Trinacria. Io stesso ho ritenuto in quelle ore che fosse assai difficile, forse addirittura impossibile per ogni elettore siciliano, qualsivoglia fosse la sua collocazione parlamentare, far mancare il proprio voto ad un personaggio indiscusso e indiscutibile. Lo debbono aver pensato, in realtà, molti tant’è che Berlusconi ha evitato l’ennesimo sgarbo istituzionale e il proprio suicidio politico abbandonando l’idea inutilmente velleitaria e sordidamente bellicosa dell’uscita dall’aula dei parlamentari di Forza Italia. Alfano è stato ricondotto tra i pressanti consigli del premier e quelli dei suoi adepti ad una opportuna e istituzionale convergenza, che ha tratto di imbarazzo la quasi totalità dei parlamentari del NCD, sottraendo il governo dall’ennesima tornata di stantie vetuste polemiche.
Si è così arrivati alla quarta fatidica tornata elettorale, quella della fumata bianca in favore di Sergio Mattarella. Le 665 schede favorevoli a lui ufficialmente attribuite dimostrano con solare evidenza come la libertà di scelta, di fatto garantita dagli schieramenti, abbia favorito una votazione che è andata ben oltre le più rosee previsioni.
Appaiono pertanto assai stucchevoli oggi i tentativi di oscure ricostruzioni basate esclusivamente sui si dice o peggio su quell’anonimato irresponsabile che guasta da decenni le politiche Italiane e le nutre di miasmi fetidi troppo spesso sparsi solo da chi non si rassegna al proprio ruolo marginale.
Eleggeremo il Presidente della Repubblica alla quarta votazione, così si è espresso non più tardi di qualche giorno fa Matteo Renzi: questo è avvenuto. Il PD sarà unito su un candidato autorevole: così è stato. Cercheremo il consenso più ampio: lo si è confermato nei fatti. Il resto è inutile balsamo contro lo sconfittismo. Il tentativo puerile di nascondere una semplice evidenza: l’abilità di Matteo Renzi e l’incapacità del centro destra, non c’è stata a mio parere alcuna rottura di un patto, perché questo non era mai stato sottoscritto, non si è cambiato cavallo in corsa, non si è scelto un nome comune, come fu per Franco Marini nel 2013 per lasciarlo affogare senza sostegno tra i marosi dell’aula della Camera.
Domani 3 febbraio avremo un Presidente della Repubblica nelle piene funzioni. Sapremo se sarà un austero notaio garante inflessibile di equità sociale prima ancora che politica, custode di valori e ideali troppo a lungo sopiti o posti ai margini. La staffetta sofferta consegnata nelle sue mani da Giorgio Napolitano lo pone di fronte ad una ancor lunga corsa, una maratona di riforme incisive che in passato Sergio Mattarella ha più volte evocato. Si è chiusa con inusitata chiarezza e rapidità, per i giorni tempestosi e acri della nostra politica, una pagina molto significativa, forse determinante per riannodare le forze migliori e disperse del nostro Paese. L’Italia ha bisogno di concentrarsi univocamente sulla ripresa economica e sulla modernizzazione integrale del proprio sistema socio produttivo.
Nulla dovrà essere come prima se vogliamo agganciare la ripresa, trasformare il Paese, consentire ai giovani di giocarsi il proprio futuro in ambito europeo e internazionale. I vecchi gruppi dirigenti decrepiti e sconfitti dalla storia se ne facciano un a ragione e accettino di uscire di scena con dignità, gliene saremo grati, soprattutto lo saranno i milioni di giovani che non ne possono più di quella imbelle e insulsa gerontocrazia. Le classi dirigenti del domani si costruiscono con l’esuberanza e l’impegno di quella generazione che dovrà essere classe dirigente, proprio ciò che l’Italia oggi non ha. Lasciamo che facciano ogni esperienza ed errore, non potrà essere più grave di tutti quelli inanellati negli ultimi 40 anni che ci hanno condannati ad un declino iniquo, ingiusto e insopportabile. La sfrontatezza della novità assicura il volo della fenice, questo ad ogni costo dobbiamo favorire.