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Passaggio a livello: Europa: la sindrome tedesca oltre il baratro

Germania10-05-2016
Ubaldo Pacellla

L’Europa attraversa la più grave crisi dalla sua istituzione con il trattato di Roma del 25 marzo 1957.

Quella intuizione generosa, illuminata e quasi profetica fu dovuta a statisti di grande valore, uomini che avevano sofferto sulla propria pelle il disastro della seconda guerra mondiale. Avevano visto il vecchio continente dilaniato nella prima metà del Novecento da due guerre e da una crisi economica devastante. Costruire un modello, anche solo embrionale, per uscire dalle distorsioni dei nazionalismi è stata l’idea più brillante della storia economica e politica del secondo Novecento. Ha proiettato un grande disegno inclusivo di massa per il mondo del lavoro, lo sviluppo sociale, il rafforzamento delle classi medie, l’accesso ai diritti fondamentali, all’istruzione, alla crescita etica, di pari passo con quella economica e civile.

L’Unione europea si è gradualmente rafforzata tra mille incertezze, con la ritrosia di gruppi dirigenti e delle burocrazie nazionali, tuttavia passo dopo passo, nei decenni si è rinsaldato il disegno economico e a questo ha fatto seguito quello politico, pur frammentato e discontinuo.

La caduta del muro di Berlino del 1989 e la successiva riunificazione tedesca hanno prodotto una accelerazione, cui teneva in particolar modo la Germania per includere, troppo frettolosamente, i Paesi del Est Europa, quelli dell’ex blocco comunista, della cortina di ferro nata dall’egemonia sovietica all’indomani della fine della seconda guerra mondiale.

L’Unione Europea, marcava in quegli anni una duplicità di approccio, da un lato chi avrebbe voluto una aggregazione politica più forte e rigorosa, dall’altra quanti propugnavano una opzione saldamente economica, ancorata alle necessità di un mercato moderno, con attenzione agli aspetti socio produttivi, pur lasciando ampi spazi ai governi nazionali e alle loro politiche, soprattutto in tema di gestione di risorse e di rapporti internazionali.

Il trattato di Maastricht del 1992, risente, come molti acuti osservatori hanno avuto modo di dimostrare, di questa duplicità: si scelse di rafforzare i piani tecnico-economici con l’istituzione addirittura di una moneta europea unica che fosse da traino per una rapida e profonda integrazione politica. Così purtroppo non è stato.

La Germania ha finito per imporre, già nel crepuscolo del Novecento, le proprie linee guida, forte di una supremazia economica incontrastata, obbligando tutti gli altri Paesi a fare i conti con gli indirizzi e le aspirazioni della più competitiva nazione del continente. Il frettoloso allargamento della UE verso l’est era, infatti, pensato per garantire alla Germania l’appoggio di questi alleati: i nuovi paesi appena usciti dal socialismo reale.

Illusori, si sono rivelati, gli aneliti degli altri partner della UE, soprattutto di quelli del sud Europa, Italia in testa, che hanno sottostimato gravemente gli effetti distorsivi e condizionanti di una incontrastata egemonia tedesca a Bruxelles.

Dobbiamo ricordare le resistenze di Francois Mitterand a questo proposito, la definizione lapidaria di Romano Prodi allorché sostenne che il patto di Maastricht “è stupido perché non si governa l’economia con l’aritmetica” e, addirittura, le parole dell’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt che si rivolse ad Hans Tietmeyer invitandolo a non rendere con i suoi imperativi economici la Germania poco amata. Una cautela lontana da egoismi nazionali ribadita da Helmut Kohl quando, echeggiando Thomas Mann, disse di non auspicare una Europa germanica, bensì una Germania europea. Possiamo considerare questa dichiarazione assai profetica alla luce di una crisi che oggi non sembra avere sbocchi costruttivi e addensa nubi mai così cosi plumbee e minacciose sull’intero vecchio continente e sulla costruzione più originale che la storia europea ricordi.

La UE ha molti difetti e innumerevoli questioni aperte, tuttavia mai come oggi ha un problema irrisolto: la Germania.

La più grave crisi economica del capitalismo si è abbattuta come un maglio su di una costruzione incompleta ed incerta come la UE. Gli effetti potrebbero essere addirittura distruttivi.

Cosa certa è che la risposta intransigente sino all’ottusità da parte della Germania per il rigorismo finanziario ha prodotto effetti economici e politici devastanti. Sordi ad ogni richiamo del mondo economico da quello statunitense al Fondo monetario internazionale, dalle pressioni di Cina e Giappone ai rilievi degli Istituti più specializzati, i governanti tedeschi Angela Merkel e il potente Ministro delle finanze Wolfgang Schauble hanno preteso politiche di rientro dal deficit, proprio allorquando la recessione si faceva più acuta in tutta Europa.

Hanno usato la Grecia come paradigma minaccioso per costringere altri stati riottosi, come Italia e Spagna, a mettere mano alla finanza pubblica, adottando modelli così restrittivi da peggiorare in modo esponenziale gli effetti di una crisi di per sé già devastante, capace di sconvolgere il mondo del lavoro e gli assetti socio economici.

Ad uno ad uno gli stati dell’unione sono entrati in un circolo perverso tra economia in crisi e proteste sociali.

L’unica ad avvantaggiarsi di questa situazione è stata proprio la Germania. Ha potuto garantire alla propria florida efficiente e pervasiva economia finanziamenti a tasso zero che la rendevano ancor più competitiva sui mercati, aumentando di pari passo il gap con gli altri paesi europei ad elevata industrializzazione. Questo ha permesso all’economia tedesca, alla quale si deve riconoscere efficacia, rigore e competenza assoluta, di presentare avanzi di bilancio molto superiori a quelli consentiti dai trattati. Come dire che Bruxelles brandiva minacciosamente la propria scure sui deficit di molti Paesi, mentre distoglieva volutamente lo sguardo dalle inadempienze teutoniche e consentiva alla Francia, l’alleata di sempre, di potersi bellamente fare beffe delle regole, in sfregio ai destini degli altri stati che fossero l’Irlanda, il Portogallo, la Grecia, la Spagna e da ultima anche l’Italia.

I frutti avvelenati di questa politica germanocentrica gorgogliano oggi con i flutti tempestosi delle ondate migratorie, della guerra civile siriana, della colpevole disattenzione dell’Europa nei confronti della politica internazionale, del terrorismo, dei pencolanti assetti del Sud e dell’ Est del Mediterraneo.
L’unione europea rischia realmente di andare in pezzi sotto la spinta di un reflusso nazionalista, che attinge alle molte paure di una società stravolta dalla crisi economica, assediata idealmente dalle masse medio orientali e nord africane, in capace di costruire efficaci politiche di sviluppo economico, di solidarietà di inclusione e soprattutto di promozione per le aree più fragili del vicino continente africano, come della Regione tra il Nilo e il Golfo Persico.

Verrebbe da dire, per usare termini forzatamente icastici, che per la terza volta nel breve volgere di un secolo la Germania si assume la responsabilità di mandare in frantumi l’Europa. Tutti, popoli, nazioni e politici hanno colpe tanto diffuse quanto precise, tuttavia dovrebbe competere proprio alla Germania, egemone e leader incontrastata della UE, proporre interventi strategici di medio e lungo periodo orientati non su gli egoismi del momento, bensì su un disegno lungimirante di coesione sociale, di nuovo sviluppo del lavoro, di rilancio dei servizi in una logica di ampio respiro soprattutto per dare ai giovani speranze e opportunità concrete. Alzare steccati di qualsiasi genere, economici o materiali ricorrendo a ignobili fili spinati, è tragicamente negativo, perché una società globalizzata e interconnessa come quella attuale non consente a nessuno di chiamarsi fuori. Gli effetti perversi dei fallimenti metterebbero a repentaglio la stessa economia tedesca. Nessuno si può illudere di sopravvivere in un castello assediato, seppure ben munito e ricco di risorse al proprio interno.

Non sorprendono, purtroppo, i reiterati moniti che la Germania rivolge agli altri partner europei, addirittura con una arroganza dimenticata da decenni. Non potrebbe essere definita in altro modo, l’iniziativa del governatore della Bundesbank Jens Weidmann venuto in Italia a riproporre ricette desuete di un rigorismo in salsa luterana, anni luce lontano dalle necessità dell’economia internazionale e da quella europea in particolare. Uno stile minaccioso da retorica di scarponi chiodati che malamente si contrappone al felpato ma fermo rigore della BCE di Mario Draghi.

Sorprende che nessuna voce nel nostro Paese si sia levata per contrastare questa insana pressione della Germania, che fa il paio con la minacciata chiusura del Brennero, brandita dall’Austria in funzione di gendarme di Berlino.

Nessuno può credere che vi siano, dietro queste prese di posizione, reali motivi per governare i flussi migratori, ancorché sarebbero insani, profondamente erronei e immotivati. I paventati controlli di frontiera del Brennero, oltre che travolgere lo spirito e i trattati dell’Unione europea costerebbero solo all’Italia 10 miliardi di euro l’anno, quando con tre miliardi di euro si è comprato il sostegno della Turchia, che di migranti ne deve gestire qualche milione. E’ fin troppo ovvio che il Brennero è l’ulteriore elemento di pressione verso una politica europea dell’Italia che sta lentamente aggregando un consenso sempre più diffuso, orientato alla crescita, alla sostenibilità economica, non ad un rigore perverso.

Vogliamo essere dialetticamente brutali, ricordando che la Germania nel 1916 lanciò un’offensiva sui campi del nord Europa che produsse milioni di morti, altrettanto fece dal 1940, non vorremmo che questa infausta storia si ripetesse, magari solo per effetti socioeconomici, anche nel terzo millennio, affidando ai futuri libri di storia, il 2016 come l’anno del collasso dell’Unione europea. Sorprende dicevamo il silenzio seguito in Italia ai moniti di Weidmann, praticamente nessuno si è levato in difesa della legittimità della nostra politica economica. Solo una voce fioca e tardiva, quella del Direttore del Sole24Ore, Roberto Napoletano, ha preso le distanze dalle iniziative della Germania. Il resto del mondo economico, finanziario e politico, si è distinto per inerzia. Nulla da dire dall’incendiario Matteo Salvini alla sinistra antagonista di Fassina e soci. E’ toccato in tanto vuoto pneumatico proprio al premier Renzi, dopo giorni, rimandare al mittente le critiche del banchiere centrale tedesco.

L’intero quadro europeo continua a proporre uno scenario assai preoccupante per le giovani generazioni esposte ad essere spazzate via dalla risi economica. Un dato su tutti non merita ulteriori commenti. L’indagine Demos-Coop su chi difende i giovani lavoratori in Italia registra per il 2016 questi indici: la famiglia il 27%; era il 36% lo scorso anno; nessuno il 25 %; il sindacato buon terzo al 17%, raggiungeva il 30 % 10 anno or sono. Nessuno può permettersi di regalare alla crisi una intera generazione. E’ il momento di agire con determinazione sull’onda dei valori di cui l’Europa è alfiere e paladina, saranno le idee, la solidarietà l’accoglienza, la promozione dei giovani a scongiurare un fallimento, che costituirebbe per ognuno di noi una colpa irredimibile.

Fonte immagine; www.serviziocivilemagazine.it

Pubblicato: Martedì, 10 Maggio 2016 10:06