Sistema di accoglienza
Il razzismo istituzionale nel suo piccolo
di Federica Resta e Luigi Manconi
Quando Roberto Maroni annuncia di voler privare di risorse i Comuni lombardi che accolgano immigrati, sa di poter contare su un clima diffuso di “xenofobia localistica” (o “localismo xenofobo”). Quello espresso dalle ordinanze di molti sindaci nell’esercizio dei poteri speciali loro attribuiti in materia di “sicurezza urbana” dal 2008, con uno dei tanti decreti-sicurezza voluto proprio da Maroni (allora Ministro dell’interno). A voler essere proprio ottimisti, si sarebbe anche potuto sperare che questi poteri fossero esercitati secondo la teoria delle “Broken windows”, elaborata da Rudolph Giuliani quando era sindaco di New York. E dunque in modo da eliminare le cause profonde del crimine, tra cui la percezione di degrado e mancato controllo ingenerata, tra l'altro, dalla vista di finestre rotte mai riparate, legando il diritto alla sicurezza alla sicurezza dei diritti. Ma anche quest’«utopia negativa» è fallita, di fronte a un’idea di sicurezza tutta schiacciata sul preteso diritto dei cittadini italiani a non essere «turbati», nelle loro «piccole patrie», da chi sia reo di essere nato altrove (e pericoloso per ciò solo, forse perché dimostra la relatività delle certezze iscritte nel territorio).
E così, nell’esercizio di questi poteri straordinari, si è previsto di tutto. Dal diniego di erogazione del bonus bebè alle famiglie immigrate, alle «norme anti-kebab»; dal divieto di tenere riunioni pubbliche in lingue diverse da quella italiana, all’obbligo per gli stranieri di girare per strada con giubbotto catarifrangente (“a loro tutela”, si è detto); dalle ordinanze anti-scabbia (divieto di avvicinamento ai negozi per gli stranieri, sul presupposto che possano trasmettere malattie) a quelle anti-Ebola (obbligo per gli immigrati fermati di sottoporsi a visita medica).
Il tentativo, di alcuni sindaci, di “legiferare” in proprio, eludendo con lo strumento delle ordinanze la riserva statale in materia di immigrazione e diritti fondamentali è stato, in molti casi, bloccato dai Tar, che hanno annullato questi provvedimenti. Il cui ambito è stato almeno in parte circoscritto dalla Corte costituzionale, che ha precisato come le ordinanze comunali non possano essere utilizzate come strumento di normazione “ordinario”. E questo, per evitare quella “disparità di trattamento” che deriva necessariamente – ma illegittimamente - dall’incidenza di questi provvedimenti sulla “sfera generale di libertà” dei cittadini, che non può essere diversamente circoscritta in ragione del Comune in cui ci si trovi e, quindi, dell’arbitrio del sindaco di turno. I diritti umani, insomma, non sono “a geografia variabile” e non c’è urgenza che possa legittimare ciò che neppure la legge dello Stato può fare. Molte ordinanze sono state, infatti, annullate perché escludevano proprio i migranti dall’esercizio di diritti fondamentali (istruzione, libertà di culto, abitazione, etc.), in contrasto con la giurisprudenza costituzionale, secondo cui i diritti inviolabili spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani». Di modo che- continua la Consulta dichiarando illegittimo il divieto di matrimonio per gli irregolari- la «condizione giuridica dello straniero non deve essere (..) considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi». Qual era, ad esempio, l’aggravante di clandestinità, dichiarata incostituzionale proprio perché inaspriva ulteriormente il trattamento sanzionatorio per qualsiasi reato, per il mero fatto che il suo autore fosse uno straniero.
Il “razzismo istituzionale” espresso dalle leggi statali è stato dunque, almeno in parte, contenuto dalla Consulta o da un’assunzione di responsabilità da parte del Parlamento (come nel caso della delega, ancora inattuata, per la depenalizzazione del reato di immigrazione irregolare). Ma riemerge carsicamente, a livello territoriale, con un federalismo razzista, che tradisce l’idea solidale di “alleanza” (foedus), etimologicamente all’origine di quel sostantivo. E che identifica la propria autonomia in un’idea tirannica di sicurezza, tutta giocata sull’esclusione dell’altro-da-sé. Non a caso – notava già Freud – in alcune lingue, come il tedesco, la parola “perturbante” significa letteralmente “non familiare”.
fonte immagine: iccontigliano.it