Sistema di accoglienza
Per quelle donne nigeriane che anche in Italia non hanno trovato ascolto e protezione
Huffington Post, 6 febbraio 2017
di Valentina Brinis e Luigi Manconi
Con un telegramma (sapore fragrante di altri tempi), lo scorso 26 gennaio, il dipartimento della Pubblica Sicurezza chiedeva alle questure di Roma, Torino, Brindisi e Caltanissetta di effettuare "mirati servizi finalizzati al rintraccio di cittadini nigeriani in posizione illegale sul territorio". Negli stessi giorni l'Ambasciata della Repubblica Federale della Nigeria si rendeva disponibile - come già più volte in passato - ad assistere alle "audizioni ai fini identificativi di sedicenti cittadini nigeriani (...) per il loro successivo rimpatrio".
Di qui, l'impegno del Dipartimento di mettere a disposizione novantacinque posti nei Centri di identificazione e di espulsione delle città prima elencate: quarantacinque per gli uomini e cinquanta per le donne. Si può, col massimo scrupolo e con la più cauta prudenza, misurare le parole e, tuttavia, è difficile sottrarsi a una gravosa sensazione.
Più che di una operazione di polizia per il contrasto "all'immigrazione clandestina" (così recita l'oggetto del telegramma), questa sembrerebbe una vera e propria "caccia all'uomo". E, nel caso specifico, una sorta di "caccia al nero", con bottino sicuro. Anche perché la maggior parte dei casi di irregolarità si registra tra i cittadini di nazionalità nigeriana. La realtà, però, non è sempre di immediata lettura.
Nei primi mesi del 2017 le domande di asilo di cittadini nigeriani, prese in considerazione dalle Commissioni Territoriali, sono state oltre 1200 e nel 70% dei casi (in linea con il 71% del 2016) hanno ottenuto una risposta negativa. Richieste, tuttavia, che hanno un'altissima probabilità di venire impugnate davanti al tribunale, con la prospettiva di ricevere un parere positivo.
Il fatto rilevante è che, tra quelle bocciate, ci sono anche molte domande di donne la cui storia non è stata ritenuta credibile dalla Commissione Territoriale. Il più delle volte, infatti, vengono raccontate delle vicende stereotipate che nascondono un'amara verità: l'essere vittime di tratta. Ovvero una condizione di prigionia all'interno di una rete criminale che si ha paura di denunciare, a causa del pericolo di sanguinarie rappresaglie nei confronti della propria famiglia rimasta nel paese di origine.
La scelta più opportuna, dunque, cui si ricorre più frequentemente, è quella di raccontare vicende suggerite da altri connazionali pur di non far emergere la realtà, nonostante si corra il rischio di venire rimpatriate e di esserlo, persino, attraverso i centri di identificazione e di espulsione.
Nel corso della nostra ultima visita al Cie di Ponte Galeria, lo scorso 6 gennaio, le donne nigeriane trattenute erano ventuno. E tutte erano "vulnerabili": bisognose cioè di assistenza e di supporto psicologico che però, indipendentemente dalla qualità della gestione, in un posto come quello è davvero arduo garantire.
È proprio lo spazio fisico, così tetro e alienante, a costituire un ostacolo pressoché insormontabile e a mettere la persona in uno stato di insicurezza tale da non permetterle di denunciare i suoi sfruttatori. E così anche quella esile possibilità di salvezza rischia di sfumare. A prevalere sono l'ansia e la paura del rimpatrio, del ritorno a casa senza alcun risultato positivo da raccontare.
Cinquanta posti nel Cie significa dunque rimandare in Nigeria cinquanta donne che hanno subito violenze, anche in Italia, e che anche qui non hanno trovato ascolto e protezione.