Sistema di accoglienza
Welcoming, storie di accoglienza
Huffington Post, 31-03-2016
Valentina Brinis
Da qualche anno mi occupo di immigrazione. Lo faccio in vari modi e rivestendo ruoli diversi: dall'operatrice sociale alla ricercatrice fino alla militante politica. Il tema è sempre lo stesso ma cambia il punto di vista e ciò che ne viene messo in risalto. Da ricercatrice e militante cerco di immaginare quale potrebbe essere l'intervento migliore per colmare le lacune della normativa e della procedura. E da operatrice individuo le criticità che riguardano i diretti interessati: i migranti.
Lo sportello legale di A Buon Diritto è un ottimo osservatorio da cui si gode di una fantastica vista sulla scena romana e nazionale dell'immigrazione. E, nello specifico, su quella dell'accoglienza. Il panorama è poi arricchito dai racconti delle mie colleghe e amiche e da quelli di chi nei centri di accoglienza ci abita. È proprio all'interno di questi spazi che si intravedono le tracce di percorsi di integrazione. Non tutti certo ben riusciti, come la cronaca ci ricorda. Ma nella narrazione di ciò che non va, troppo spesso si dimentica chi sono i protagonisti. E così facendo si impoveriscono e si appiattiscono le storie delle persone coinvolte che, quando rivestono un ruolo, è sempre quello del "cattivo" o dell'eroe come nel più classico dei film americani.
Le storie che conosciamo sono quelle del terribile spacciatore del Pigneto (e non è mia intenzione sminuirne la gravità, per carità) o quelle del buon immigrato che ottiene la cittadinanza dopo aver salvato la vecchietta dall'incendio (e non è mia intenzione sminuirne il valore, per carità). Mi colpisce sempre, però, che non si conoscano le vicende di chi ce la mette tutta per attivare processi di integrazione che siano degni di questo nome, sia italiani che stranieri. Mi riferisco agli operatori sociali e all'impegno quotidiano di alcuni di loro per ridurre al minimo le difficoltà dettate dalle differenze linguistiche e culturali. E la mia attenzione è allo stesso modo rivolta alle fatiche giornaliere di chi prova a comprendere gli usi e costumi del paese in cui si trova. Sono storie un po' meno avvincenti di quelle prima citate, e che non suscitano sentimenti immediati di rabbia o tenerezza (e stiamo ben attenti a provarli). Ma ritengo siano certamente degne di essere conosciute.
Mia sorella Ilaria, a esempio, ha lavorato per qualche anno in un centro per minori stranieri non accompagnati. La città non è importante e non lo è quasi mai, questi sono racconti internazionali! Aveva a che fare con ragazzini di sedici e diciassette anni provenienti dall'Albania. Presi singolarmente erano dei principini: ubbidienti, educati e volenterosi. Quando si trovavano tutti insieme le scene e le battute erano quelle tipiche di un gruppo di adolescenti maschi in gita scolastica. C'era davvero da mettersi le mani nei capelli e forse, aggiungo io, da tapparsi le orecchie come delle vere signorine. Ma non è questo il compito della brava e motivata operatrice. Lei doveva intervenire, sedare quegli animi euforici e interrompere la tipica dinamica di gruppo dello spalleggiamento reciproco. Non sempre ci riusciva. Era troppo forte l'energia che si creava in quei momenti da poter essere affievolita dalla giovane operatrice con i capelli lunghi e le lentiggini sulle guance.
Dopo qualche giorno di sbeffeggiamento, si rese conto di conoscere tutte le parolacce in albanese - dinamica solitamente tipica di chi va in vacanza in un paese straniero. L'apprendimento era stato completato una sera a cena. L'arrivo del catering fu drammatico: all'apertura dello scatolone contenente il cibo scoprì di dover consegnare a ognuno dei ragazzi un wurstel e due arancini. Distribuì la razione prevista e si accomodò a tavola. Poco dopo nei singoli piatti la fantasia si sprecava e cominciarono a comparire delle composizioni falliche piuttosto imbarazzanti. E, tanto per non farsi mancare nulla, partì un allegro coretto in cui veniva ripetuta all'infinito la parola "kar", che tutto poteva sembrare tranne che la traduzione albanese di "cazzo". Prudentemente l'operatrice aveva evitato di mettere nel suo piatto il wurstel ma ciò provocò la curiosità dei commensali che con fare malizioso le chiedevano: "Non mangi la kar-ne? Non ti piace?". Lei cortesemente spiegò che non mangiava molta carne ma ormai la scintilla era scattata, e il flusso di battute era inarrestabile. Cercò, fortunatamente riuscendoci, di sviare il discorso parlando della scuola e delle attività svolte durante la giornata, e si premurò di raccomandare alla cucina di pensare bene ai menù successivi. Da lì in poi mise a punto una serie di strategie più consone al ruolo dell'insegnante vicina alla pensione che a quello della giovane supplente che ci crede ancora. E, stando ai suoi racconti, pare abbia funzionato. O quasi!