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Italia - Razzismo

Baryali, l'alchimista dell'accoglienza da rifugiato afghano a mediatore per mestiere.

mediatore culturale

la Repubblica, 19-12-2014
FLORE MURARD-YOVANOVITCH

Premio UNAR-SPRAR. Questo è l'articolosecondo classificato del concorso, in collaborazione con Repubblica. it, indetto dalla Presidenza del Consiglio tra i giornali locali che hanno trattato temi legati all'accoglienza e all'integrazione di richiedenti asilo e immigrati. La storia di un ragazzo afgano, intraprendente e poliglotta. "Sono un ponte tra due culture, la mia missione è aprire le porte del nuovo paese". L'articolo è stato pubblicato da Mp news

ROMA - Tutti lo conoscono, tutti lo cercano; i centri di accoglienza per migranti della capitale se lo contendono per averlo nel loro staff di operatori. I ragazzi profughi, che lui accompagna nel percorso nel centro, Saleem, Ali, Abdel e Jean-Claude, gli chiedono costantemente consiglio, su come vestirsi, su come "si dice questa parola in italiano", "quando si avranno i documenti".... Un fratello maggiore, uno che con loro condivide lo stesso viaggio e gli stessi pericoli ma è approdato dall'altra parte, saldo nella comunità italiana dove ormai ha un mestiere. Dopo 5 anni a Roma, Baryali, rifugiato afghano ventenne, è diventato mediatore culturale del Comune e aiuta altri giovani migranti a passare il difficile gap dell'integrazione; dalla barca al centro, dalla casa famiglia, alla vita nuova, fuori. Una missione impegnativa 24 ore su 24, spesso durante la notte quando è richiesto dagli adolescenti turbolenti che ha in carico nella struttura della Tiburtina.
Il viaggio ce l'ha stampato sulla pelle. Dimostra più rughe della sua età. Una storia che inizia a Kabul lunga 5000 kilometri, per raggiungere l'Europa a piedi o aggrappato sotto i tir, tra trafficanti di esseri umani, dai monti gelati dell'Iran, fino alla Turchia: l'odissea di tanti giovani afghani. Gli stessi stenti che li rendono vicini e complici: la fame e le guardie di frontiere che ti sparano a vista, le percosse e la detenzione illegale in Grecia solo perché non in possesso di documenti. Lì conosce la depressione. Poi, finalmente, il tratto di mare tra Thessalonica e l'Italia, nascosto sotto un camion, trattenendo il respiro, per approdare nel porto di Bari. Un treno: destinazione Stazione Ostiense. Tra i binari del Terminale in disuso, scopre con sgomento altri coetanei che di notte cercano un rifugio fra i treni e i cartoni: la "tenda" afgana accampata del cuore della capitale. L'asfalto per letto, la sopravivenza pura, la fila, il cibo raro distribuito da volontari.
Il rifiuto dell'assistenza, vuole farcela da sé. Ma Baryali non ama mettersi in fila e chiedere l'elemosina, dipendere dall'assistenza fornita da onlus e Chiesa, vuole fare da sé, farcela. Impara in fretta l'italiano per uscire dalla strada, e intraprende il percorso offerto dal Comune; centro di accoglienza, casa Famiglia, borsa di lavoro, e infine il primo lavoro sognato: cameriere, commesso ad "Acqua e Sapone", mediatore. Oggi, richiestissimo da tutte le istituzioni incaricate dall'accoglienza, conta tra suoi datori di lavoro la Caritas, la Croce Rossa, il Cies, il centro Astalli e vari organismi internazionali. Ma lui vuole restare in Italia tra i giovani profughi e accompagnarli tra tranelli e ostacoli del percorso. Aprire loro le porte del nuovo paese che lui si è guadagnato con la tenacia, la conoscenza dell'inglese e il suo vero segreto: le amicizie.
Fare squadra. Baryali, a casa nella Kabul di Karzai, gestiva l'intero staff dell'azienda familiare di telefonini, un commercio in pieno boom nell'Afghanistan del dopoguerra. Viaggi di affari e bilanci da capogiri, apre succursali da Herat a Feyzabad, fornisce anche gli eserciti stranieri, dove frequenta americani e canadesi, e intanto perfeziona il suo inglese. All'Università, quando si iscrive al master di "Business and Administration" è già un manager di successo. E poi il dramma di un amico vicino che salta all'angolo di una strada su una mina, il rifiuto della guerra, e soprattutto dei ruoli irrigiditi da una soffocante gerarchia sociale, dove uno è sempre sopra o sotto l'altro, sogna l'uguaglianza. La strada: l'Italia. Anche a piedi.
Parla sette lingue. Baryali è nato poliglotta. Parla sette lingue: pashtun, farsi, persiano, arabo, curdo, indiano, inglese, e ormai scrive e parla un italiano fluente. La mediazione ce l'ha nel sangue, da piccolo a casa, interprete di tutte le occasioni, persino sul sentiero di notte tra fugasci e trafficanti per arginare i conflitti, sulla barca e infine nel C. A. R. A di Roma. Quello di Castelnuovo di Porto, in mezzo ad altri mille migranti, per risolvere liti e rivolte. Oggi al centro di Saleem per minori non accompagnati, gestisce i più incazzosi dei ragazzi quelli che provengono direttamente dalla strada, pronti al gesto facile e a spaccare tutto pur di sfogare la rabbia. I ragazzi sono soli, senza parenti né affetti, spesso isolati dai muri della lingua e la sofferenza è spesso tanta, la depressione anche.
L'arma della diplomazia. Insieme alla conoscenza delle lingue, la chiave dell'integrazione secondo Baryali, è la diplomazia. "Perché gli italiani con i media e l'attualità ormai hanno paura di noi, ci identificano tutti coi jihadisti di Al Qaida, figuriamoci oggi con l'Isis, dobbiamo esserne consapevoli e muoverci in modo ancora più civile. Io pago più tasse di un italiano, quasi la metà del mio stipendio". Ma non è ingiusto? "No, è il prezzo da pagare, siamo ospiti qua. Le regole sono diverse". "Però, continua, quando i giornalisti fanno reportage e parlano dei nostri paesi di provenienza non dovrebbero solo sempre mostrare bambini scheletrici e terroristi, ma i nostri splendidi palazzi, la nostra arte, l'ospitalità e le bellezze della civiltà millenaria che ci portiamo dentro. Potrebbe arricchire anche voi italiani. Se avessimo invece di centri di accoglienza con soli posti letto, veri centri per lo scambio tra culture, accoglienti, aperti ai giovani italiani, dove loro potessero entrare e bere un tè insieme a noi, allora, certo che cosi si farebbero passi avanti verso l'integrazione".
Decisivo è costruire una rete di affetti. Lui che si è aggrappato ai tir, ha rischiato la morte per fame o in mare ai futuri candidati, ai quali consiglierebbe di valutare bene se quel viaggio pericolosissimo è la strada giusta da intraprendere, se vale la pena lasciare il nido familiare per rischiare la propria vita nel Mediterraneo, o ammalarsi di depressione e finire per strada in Europa. La ricetta di una migrazione riuscita secondo lui, oltre alla lingua, è di aver un progetto chiaro in testa, la curiosità e saper cogliere la palla al volo, come in un gioco di cricket, di cui lui è appassionato. "Se li vedo accosciati sui sofà o sempre tra di loro, li mando fuori a conoscere la città, frequentare i musei, le biblioteche, e soprattutto farsi amici nuovi fuori dalla propria comunità di origine, perché loro possono cambiarti la vita". Bary, ormai ha la sua propria rete di affetti, stranieri e italiani, artisti, giornalisti, staff e capi delle Nazioni Unite, una nuova comitiva cosmopolita costruita nel paese d'accoglienza. Dopo aver conseguito il diploma delle Scuole Superiore, si iscriverà all'Università, a Relazioni Internazionali. Intanto è socio dell'associazione Cucimondo per lo sviluppo della cucina multietnica in Italia, per dare un altro sapore all'integrazione.
"Ho scelto di vivere per gli altri". "Per i ragazzi, ci sono sempre, il mio cellulare è sempre acceso di notte se dovessero avere bisogno di qualcosa. Bisogna dargli tutto l'affetto di cui hanno bisogno e che si meritano. Ma non devi mai dare troppa confidenza, perché il rischio, se diventa amicizia è di non essere più in grado di svolgere il compito educativo: saper essere frustrante, rimproverarli quando serve. Perché sei come un modello, ma puoi anche essere un virus". La mediazione è una difficile alchimia, l'equilibrio giusto è fargli capire che loro sono ospiti e lui operatore dello Stato italiano che li accoglie. La sua giornata intanto ha le ore lunghe: corso d'italiano, sostegno psicologico informale, Questura, Prefettura per i permessi di soggiorno, pronto soccorso, sedare ribellioni, insegnare i trucchi culturali e, come se non bastasse, a volte rischiare il proprio posto di lavoro per difendere i diritti degli altri colleghi operatori italiani. Ma ormai Baryali è un specialista riconosciuto della mediazione culturale, che insegna ad altri apprendisti di tutte le nazionalità.
"Il progetto siamo noi". "Dipende da noi stessi se ci integriamo o meno, il progetto siamo noi. La chiave è non tenersi dentro la propria cultura come una pietra, ma aprirsi ad una nuova, essere molto curioso, conoscere nuove persone, e soprattutto non danneggiare gli altri. Come recita un proverbio del mio paese, viviamo in "una foresta, dove convivono alberi secchi e alberi giovani, se bruci i rami secchi, il fuoco divampa e brucia anche i vivi", quindi ai ragazzi dico non avete il diritto di comportarvi in modo sbagliato e mettere a repentaglio il percorso degli altri, gli italiani rischiano di fare dell'erba tutto un fascio e di vederci tutti come delinquenti. Qui siamo tutti stranieri, capisci, se uno commette un reato, commette un reato nei confronti di tutti gli altri, che poi rischiano, a catena, altre discriminazioni. Vitale è sentire che siamo i rami dello stesso albero".
Il razzismo, lo conosce bene. Ha gestito vari assalti contro e dentro il centro nel quartiere di Tor Sapienza, finita sulla cronaca recente e già preso di mira nel passato. Ha imparato a resistere alle provocazioni, a usare il sorriso quando scatta il conflitto, la nonviolenza ghandiana. Anche quando ti buttano bombe carte, quando si è manganellati e i ragazzi rompono tutto. Non a caso al centro lo soprannominano "Akhenaton", dal nome del faraone egiziano, per la lunga barba che portava fino a poche settimane fa, l'aspetto impassibile e la diffusione di nuove regole. Intanto l'intolleranza secondo lui cresce, perché alcuni, i più vulnerabili sbagliano, spesso vengono usati come piccola manovalanza da capi banda italiani, per spacciare al posto loro e poi la colpa ricade sugli stranieri." Io insegno ai ragazzi ad esser svegli, a non cadere nei tranelli. In primis, a frequentare italiani buoni. Quando usciranno dalle strutture i miei ragazzi devono vendere fiori, non droga".
La sua più grande delusione. E' stato trovarsi naso a naso, accucciati tra i binari dell'Ostiense, con gli stessi ragazzi afghani che aveva conosciuto la sera del suo arrivo, cinque anni fa. Non erano mai usciti dalla strada, uno strazio. La sua più bella vittoria? Reincontrare i ragazzi eritrei, egiziani, e albanesi allora ospiti del centro Civico Zero dove lavoravo, tutti diventati interpreti retribuiti dal centro, alcuni persino mediatori. Per alcuni non avrei mai giurato". "Sono come un ponte tra due culture. La mia missione è traghettare un giovane migrante da una cultura ad una altra, come si farebbe da una riva all'altra di un fiume. Quelli larghi, dei monti della mia infanzia.

Fonte immagine: italiena.wordpress.com

Pubblicato: Lunedì, 22 Dicembre 2014 12:37

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