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Passaggio a livello: Tramonti padani e futuro possibile.

riforme11-03-2015
Ubaldo Pacella

Un tramonto triste e opaco più delle vie di Macondo, descritte con inarrivabile poetica leggerezza da García Márquez sotto le folate di vento sferzate d’acqua ed un cielo plumbeo e basso che obbligava i cuori alla malinconia. Non è il tramonto del patriarca, ma forse l’eclisse politica del personaggio Silvio Berlusconi. Una figura centrale, nel bene o nel male, per la storia del Paese nell’ultimo ventennio. Oggi ogni fascino sembra smarrito. Non solo per la patina troppo spessa che non riesce più a velarne le rughe profonde ma per una manifesta incapacità di esprimere una linea politica di qualche vigore, seguita in maniera convinta o prona da uno stuolo di discepoli, di famigli, di opportunisti.

La decisione di non votare la legge costituzionale, sino a ieri seguita con attenzione, nel tentativo di tenere in vita sé stesso e un progetto politico che sembra sfaldarsi pezzo a pezzo. Non sapremo mai quali fini reconditi nascondesse il cosiddetto Patto del Nazareno a ciascuno dei due interpreti. È servito, di certo, a Matteo Renzi per scrollarsi di dosso la riottosità della minoranza PD che ne intralcia aspramente, non sempre a torto ma ancor meno a ragione, l’incedere. Una prima analisi a poche settimane dal frantumarsi di questa vagheggiata unitarietà per la revisione costituzionale rende evidente come l’anello debole del progetto era proprio il leader, se così si può ancora definire, di Forza Italia. La linea politica oscilla tra un’inconsistenza deludente ed una sorta di resa senza condizioni all’altro Matteo, quel Salvini erettosi a fustigatore senza requie del premier Renzi, con il risultato di far sembrare il vecchio ex Cavaliere un dominus imbolsito ed ondivago di volta in volta, attratto dalle falene dei quarantenni che siano di centrosinistra, o peggio di destra.

La scelta incomprensibile e vagamente suicida appare dettata dall’obbligo di convergere sull’unico straccio di alleanza per le prossime elezioni regionali che resta in mano a Forza Italia: l’apparentamento con la lega di Salvini, così come quest’ultimo ha voluto e chiesto, senza cedere nulla alle richieste del prode di Arcore. Quanto le sparute e sbandate schiere degli elettori di Forza Italia potranno seguire la deriva leghista improntata, oltre che alla storica xenofobia, ad un abbraccio con l’ultradestra confezionato a Roma in Piazza del Popolo addirittura con gli esponenti di Casa Pound, lo diranno le urne. È molto più probabile che gli affezionati sostenitori di un antico liberismo fondativo dell’esperienza azzurra decidano, in questo panorama di macerie, di restare comodamente a casa, magari davanti alla TV e ad un programma di Mediaset, per non tradire fino in fondo il leader che fu.

I toni cerei di Forza Italia, rimandano alle pagine oscure e decadenti di un ciclo che si compie tra polvere e acrimonie. Nulla di bello o di eroico in una storia che si estingue, non le luci e ombre tratteggiate nella pittura dell’ultimo ‘800 come estremo caso ad un avvedutismo che lasciava il campo all’irrompere della modernità nelle forme e nei colori più diversi. Nulla di tutto questo appare nelle scompaginate schiere di un centro destra egemone negli ultimi venti anni della politica nazionale, comunque interlocutore fiero sino, almeno, alla rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica. Guardando gli occhi velati del cavaliere, ascoltando la sua voce sempre più frammentata dalla vecchiezza, osservando lo smarrimento dei più fidi e diretti collaboratori parlamentari e non, a partire da Gianni Letta e Fedele Confalonieri, per arrivare oggi a Romani o alla Gelmini, è evidente il declino più triste. Quello senza l’empito del coraggio, il rischio della battaglia, il confronto con la sconfitta dignitosa, ma accettato approdo di chi non vuole rassegnarsi a ritirarsi, a chiamarsi fuori al momento opportuno. Un passaggio tanto aspro quanto impossibile nello scenario politico ancor più in Italia dove quasi nessuno ha la stoffa del Cincinnato né la sapienza del filosofo o dello statista.

Si è soliti, invece, aggrapparsi ad ogni sogno di sopravvivenza, tipico nello sport degli ex campioni, che accettano di coprire le glorie passate di una patina spessa di malinconia, pur di ostinarsi a scendere in campo, costretti a rincorrere giovani volenterosi che nulla avrebbero potuto contro il fuoriclasse di un tempo. Sarà un caso, forse, che il mesto cono d’ombra che Berlusconi lascia dietro di sé in questa stagione coinvolga proprio l’amato Milan e il calcio che tanta soddisfazione e seguito, anche elettorale, ebbe a dare al cavaliere trionfante del Milan stellare.

Smentire la propria linea politica è stata una costante di Silvio Berlusconi negli anni d’oro, quelli nei quali era di fatto il dominus incontrastato, le cui scelte avevano potere e capacità d’indirizzo in ogni ambito della politica e dell’economia, con risultati incerti e modesti nel migliore dei casi, nei fatti con un esito catastrofico per l’Italia, aggravato dalla pochezza di un centro sinistra incapace in vent’anni di prospettare un disegno aggregante e utile per il Paese, animato soltanto dal velleitarismo, tenuto insieme da un antiberlusconismo incapace di coprire le manchevolezze e le faide che ancor oggi tormentano gli epigoni della sinistra. Questo mutare di umore e di linea non è altro, nello scenario attuale, che la rincorsa affannosa a fermare lo sgretolarsi di un castello le cui fondamenta non sono mai state radicate nel meglio della società italiana. Ecco perché emergono nell’appassire autunnale delle idee, personaggi modesti, che in altri tempi avremmo definito da operetta, come il fatal Brunetta, lo smanioso Fitto, i crocchi di parlamentari incapaci di elaborare un pensiero autonomo, preoccupati del destino personale, poiché non più affidato alla volontà del capo, alle grazie di qualche assistente, alla persuasione degli accoliti. Basti pensare alle figure di Bondi e della Repetto, singolari paladini del mito berlusconiano, costretti a prendere atto, loro malgrado, di un disfacimento che porta con sé la fine di un sogno oltre che di una leadership.

Non sappiamo a quali altre invenzioni, logore e adusate potranno ricorrere i portatori del verbo di Forza Italia, per convincere elettori e potenziali seguaci. Mettersi oggi in coda al Matteo leghista, dopo aver lasciato sussiegoso spazio al Bossi in canottiera, è una sorta di contrappasso della politica. Vedremo quali e quanti frutti questo autunno potrà garantire all’ex cavaliere alle prossime elezioni regionali.
Rompere una sorta di accordo istituzionale per la revisione della Costituzione nell’ambito necessario e troppo lungamente atteso della modifica del bicameralismo paritario e ancor più della revisione del Titolo V è di certo un segnale di incolmabile debolezza. Gli italiani che guardano ben oltre il ristretto orto della gestione della politica non vedono altro che riforme a qualsiasi prezzo per uscire da un pantano trentennale di cui nessuno ormai ha più nostalgia. La scelta dei contestatori ad ogni costo del PD appare, d’altro canto, la fuga dalla responsabilità e la voglia di preservare briciole di potere e posizioni di un qualche livello, mettendole al riparo dall’onda montante del novismo che si gonfia sempre più alle spalle del Presidente del Consiglio.

Vi sono ragioni valide e interrogativi opinabili per rendere operativo l’Italicum. Lo sbandamento sempre più evidente di Forza Italia, chiusa nella morsa di un centro destra che non appare in grado di avviare il minimo margine di dialogo effettivo con il Governo rende, di fatto, impraticabile la strada di modifiche che, inevitabilmente, rimanderebbero il testo al Senato in uno scenario afghano o siriano. Nessuno può far finta di niente e non porsi il problema che un ulteriore rimpallo parlamentare decreterebbe, come sempre è stato nel passato, la fine di una spinta riformatrice.

Dobbiamo avere il coraggio di rischiare, oggi fino in fondo, per cambiare il Paese, renderlo moderno, efficiente e soprattutto premiare i giovani, le qualità, la formazione professionale. Rompere la catena corporativa che dilania il Paese e lo ha condotto sul baratro dell’insolvenza è il compito primario di ogni progressista. Non vi è sinistra possibile senza valori, senza lavoro, senza rilancio sociale e produttivo. Chi ha salde radici, idee, progetti e coerenze interiori è consapevole di poter rilanciare queste battaglie all’indomani di un profondo cambiamento istituzionale. Il nuovo Parlamento e la nuova Camera potranno, con grande facilità, modificare la legge elettorale e correggerne le eventuali storture soprattutto sui nominati.

Appare francamente quasi impossibile farlo oggi con questo Parlamento, con le forze di cui dispone la maggioranza e il Governo, con una esplosione della frammentarietà che è arrivata al tutti contro tutti all’interno di ogni schieramento. La confusione massima e la polverizzazione del Parlamento rendono di fatto impossibili pur giusti adeguamenti. Occorre far prevalere il coraggio dell’oggi, la speranza e le idee del domani. Sarebbe un errore imperdonabile lasciare che il Paese ripiombi nel vortice dei veti incrociati che lo ha portato alla deriva dell’Europa, sino al lambire il naufragio economico. Lo scenario internazionale non aspetta e non comprende gli intrighi e i rivolgimenti della pancia del Paese e dei suoi parlamentari: o ci mettiamo in linea con le esigenze del mondo moderno o verremo lasciati alla deriva. C’è in gioco il futuro materiale e morale, non solo alcuni condivisibili principi politici.

Pubblicato: Mercoledì, 11 Marzo 2015 12:19