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Passaggio a livello: Economia: ultima chiamata per l’Italia

economia industriale03-03-2015
Ubaldo Pacella

Gli anni bui di una crisi economica tanto profonda quanto capace di scuotere alle fondamenta il sistema socio produttivo europeo, ancor prima di quello italiano potrebbero essere alle nostre spalle. Effetti nefasti si sono riversati in ambito sociale e del lavoro. I contorni di questa crisi di sistema dell’economia potranno essere delineati con sufficiente chiarezza soltanto fra qualche anno quando, è l’augurio di tutti, l’economia del vecchio continente si sarà trasformata nella modernizzazione e tornerà ad essere cinghia di distribuzione del reddito e delle opportunità, colmando quel divario e quella polarizzazione che hanno di fatto spezzato la coesione sociale in tutta Europa, in particolare nei paesi mediterranei e in Italia. Gli indici di disoccupazione giovanile ufficialmente registrati al 42,7% disegnano uno scenario di esclusione assolutamente intollerabile.

Politica e società, crisi internazionali, contenimento del terrorismo sono argomenti che non potranno essere affrontati e risolti senza una nuova stagione inclusiva che offra spazio nel mondo del lavoro e nel sistema produttivo alle migliori energie, a coloro che espulsi a forza dovranno rientrarvi, perché è impensabile che una larga fetta dei cinquantenni possa restare nel limbo dell’inedia o in una perdurante condizione di assistenza che depaupera risorse economiche, certezze morali e volontà professionali.
Cinque anni di oscurità assoluta, una caduta a vite di ogni indicatore socio-economico al quale fa da contrappunto l’impennata, da Everest, della cassa integrazione per miliardi di ore, della disoccupazione, con il corollario, da tempesta perfetta, di una deflazione in Italia e in Europa, capace di schiantare anche le imprese più solide.

La politica in questi anni nel nostro Paese non ha saputo reagire, presa d’infilata da una gragnuola di colpi negativi, pressoché incapace di operare scelte radicali quanto onerose. Si è rifugiata entro un precario fortilizio nella speranza che la tormenta si calmasse per inerzia. Tutto ciò ovviamente non poteva avvenire. La passività scelta dalla politica italiana ha finito per peggiorare le cose. Questa consapevolezza, che si è progressivamente insinuata in vasti strati della società italiana, è alla base dell’attività del Governo Renzi. Una dinamicità degli annunci, un incalzare di proposte più o meno scintillanti, molte meno quelle realizzate, pur tuttavia ciò che è stato fatto nell’ultimo anno è assai più di quanto ci si potesse attendere, ma non di quello di cui avrebbe bisogno il Paese.
Riusciranno gli indirizzi del Governo a mettere l’Italia in condizioni di agganciare una solida ripresa economica?

La convinzione più diffusa è che oggi ci si trovi in una condizione generale potenzialmente in grado di dare slancio all’economia, con la ripresa dei consumi, il riaccendersi della fiducia, il lento risalire dell’occupazione. Tutto ciò è dovuto, sostanzialmente, a fattori esogeni. L’Italia potrebbe metterli a frutto in modo proficuo e avvantaggiarsene con un sorta di effetto fionda sulle politiche economiche, oppure depauperare queste fortune insperate e abbandonare definitivamente ogni speranza di raddrizzare la barca per scampare al naufragio.
Vediamo in sequenza quali sono gli aspetti di scenario internazionale che favoriscono un nuovo rilancio economico. Il primo fattore è la scelta della BCE, attraverso il quantative easing caparbiamente voluto da Mario Draghi, che ha preso il via il 1? marzo con acquisti di 60 miliardi di Euro di titoli al mese per un totale preventivato di 1.080 miliardi in 19 mesi con la possibilità, rifigurata proprio dal governatore della BCE, di estendere questo sostegno fino a che l’inflazione non sia tornata alla soglia accettabile del 2%.

Il successo di questa operazione vedrà scendere i rendimenti dei titoli di Stato e di conseguenza la salita del loro prezzo. Le economie forti, come quella tedesca, avranno addirittura rendimenti negativi per i bond, per l’Italia il differenziale tra i BTP italiani e il Bund tedesco è sceso dopo 5 anni sotto la soglia simbolica dei 100 punti, dal picco negativo di 575 punti raggiunto nel novembre del 2011. Tradotto in soldoni, per dirla con il linguaggio dell’italiano medio, significa pagare tra l’1.30 e l’1.40% di interesse sul nostro debito pubblico rispetto al 5.30% di qualche anno fa, ossia un risparmio di alcune decine di miliardi di Euro per le disastrate casse dello Stato. Questo è già un ottimo segnale, al quale deve aggiungersi, sempre in tema di politica monetaria espansiva della BCE, il riflesso che il ritorno complessivo di un investimento è sempre meno garantito da operazioni finanziarie, mentre quelli sull’economia reale possono offrire rendimenti molto più interessanti dei bond. Si realizzerebbe così un duplice effetto: il sostegno diretto all’economia, all’industria e alla ripresa produttiva in Europa e in Italia, il contenimento di una finanza predatoria che ha squassato le società, travolto ogni steccato di equità solidale, acuito in maniera insostenibile le differenze tra uno sparuto nucleo di popolazione ricca ed una stragrande maggioranza di cittadini impoveriti o addirittura indigenti, stimati questi ultimi in oltre il 10% della popolazione nazionale.

La crisi economica in altri termini ha spazzato via 50 anni di politica nel vecchio continente e nella nostra penisola, vibrando un colpo letale al ceto medio, azzerando di fatto la già scarsa mobilità sociale nel nostro Paese, tarpando definitivamente le ali al merito, alla qualità e alle capacità personali e professionali. Occorre oggi ripartire proprio dall’economia reale, da un disegno sociale sostenibile, equo e socialmente inclusivo, non più oberato dei tanti lacci e lacciuoli da socialismo reale, derivanti da una visione ideologica del lavoro talmente datata da rendere quest’ultimo una necessità per tutti i cittadini, ma un bene raro, sempre meno promosso e tutelato.

Altri elementi positivi per il mercato italiano sono dovuti al brusco, quanto necessario, deprezzamento del petrolio. La scelta dei paesi produttori, in testa a tutti l’Arabia Saudita, di far scendere il costo del barile intorno ai 50 dollari per contrastare incisivamente il mercato americano dello shale oil e shale gas si proietta molto positivamente sulla nostra bilancia commerciale, considerando che importiamo circa il 90% delle materie prime energetiche. Altro fattore significativo è la discesa del valore dell’Euro rispetto al dollaro, oggi tra l’1.11 e l’1.12 rispetto ad una quotazione negli anni scorsi che oscillava costantemente oltre l’1.40. Un elemento in grado di favorire le esportazioni extra UE, come dimostra il forte successo dell’export Italiano registrato dall’ottobre scorso ad oggi. Conviene ricordare come gli stessi paesi europei, non dell’area euro, attraverso una politica di svalutazione delle proprie monete nazionali tra il 2011 e il 2012, sono tornate a livelli di competitività e ad una soglia di inflazione del 2%, si pensi alla Polonia, alla Svezia, alla Danimarca.

Questi sono gli architravi esterni sui quali poggia il rilancio produttivo italiano, ad essi andrebbero combinate scelte selettive, rigorose e di grande modernità del nostro sistema socioeconomico. Il Job Act potrebbe influire per le medie e medio-piccole imprese come una sorta di effetto miraggio, in altri termini il segnale lungamente atteso del superamento di una sclerosi delle norme sul lavoro che tanto ha pesato in negativo sulla produttività italiana. Essere riusciti a rompere un tabù, nel bene e nel male a seconda dei punti di vista, potrebbe infondere nuovo spirito propulsivo, attese positive e speranze in una modesta classe imprenditoriale rincantucciata da decenni nelle più diverse forme di assistenzialismo pubblico, incapace di agire con decisione sull’economia, di investire risorse significative, altresì sfrontata nel trasferire capitali o imprese all’estero, uno sport nel quale gli italiani hanno sempre primeggiato, arricchendosi in modo improprio, sottraendo al fisco centinaia di miliardi di euro e gravando sulla parte più fragile della società, in un sistema sempre più iniquo, capace di bruciare lavoro anziché produrlo.

Gli accordi recenti in tema fiscale, con la Svizzera, il Principato di Monaco e il Liechtenstein dovrebbero porre un argine alla fuga dei capitali. Non ci illudiamo che il bilancio dello Stato possa recuperare i miliardi di euro valutati di volta in volta dall’agenzia delle Entrate, dall’istat o dalla Corte dei Conti. Basterebbe tuttavia che una parte considerevole di queste risorse economiche fosse realmente investita in Italia, ciò assicurerebbe un balzo in avanti dell’economia reale, una migliore redditività rispetto alla mera finanza, la possibilità di tornare a competere per settori industriali maturi di cui l’Italia mantiene una qualche competenza. Si ricordi a questo proposito la parabola del gruppo FIAT, tornato ad assumere lavoratori nelle fabbriche Italiane perché finalmente in grado di offrire al mercato dell’auto modelli realmente competitivi.

Vogliamo e dobbiamo essere ottimisti con il coraggio e l’incisività di chi vuole voltare pagina, una volta per tutte, lasciarsi alle spalle le macerie di un’Italia di lobby, di potentati e di privilegi per spendere le risorse migliori dei giovani in un clima di fiducia, di equità, di solidale coinvolgimento. Sprecare anche l’ultima occasione varrebbe il sicuro naufragio dell’Italia: lo scenario catastrofico di un default che non ha precedenti nella storia unitaria del nostro Paese ma che possiamo rileggere con nitida efficacia attraverso gli avvenimenti di due secoli dalla metà del ‘500 all’età napoleonica.
I tenui colori dell’aurora boreale tingono di speranza questo passaggio, sta alla politica e a tutti noi cittadini saper cogliere questa luminosità e farne tesoro per il giorno che ci attende e che vogliamo.

Fonte immagine: www.rai.tv

Pubblicato: Martedì, 03 Marzo 2015 15:00