Privazione della libertà
Manconi: “Il 41-bis ha uno scopo preciso, e non è rendere più dura la pena
Fanpage.it, 5 luglio 2016
di Claudia Torrisi
Per il senatore Pd e presidente della commissione per la tutela dei diritti umani del Senato che ha condotto un'indagine sul regime carcerario, sono legittime "tutte le misure finalizzate a impedire il collegamento con l’esterno", non le limitazioni "che non rispondono a una motivazione razionale"
Negli ultimi giorni si è tornati a parlare di 41-bis, il regime carcerario nato all'indomani delle stragi mafiose del 1992. Sabato scorso il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo che titolava su una presunta dichiarazione del sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore, il quale durante una visita alla Casa circondariale de L’Aquila avrebbe "svelato l'intenzione del governo di depotenziare il 41-bis" e sostenuto di voler concedere Skype ai reclusi sotto quel regime. Migliore ha successivamente smentito di aver pronunciato quella frase, confermando solo la direzione del "rispetto dei principi costituzionali e dei diritti umani", ma nel frattempo si era già creato un vespaio di polemiche. Il Movimento 5 stelle ha parlato di "uscita terribile", perché una modifica del 41-bis "si inserisce nella continuazione della Trattativa Mafia-Stato, una Trattativa mai interrotta". Anche il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi si è espresso in difesa dell'istituto, così come il magistrato Gian Carlo Caselli, che ha dichiarato che "eventuali modifiche del 41-bis non potrebbero che essere nel senso di un suo sostanziale svuotamento". Il cerchio di questo "attacco" al regime del carcere duro per i mafiosi si è chiuso con un nuovo articolo del Fatto Quotidiano, che ha parlato di un fantomatico "piano" per "smantellare il 41-bis".
Quello a cui si fa riferimento, in realtà, è il lavoro svolto dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani di Palazzo Madama, presieduta dal senatore Pd Luigi Manconi, che lo scorso aprile ha pubblicato una relazione frutto di un'approfondita indagine fatta sul campo per verificare l'applicazione del 41-bis in Italia. Un regime che, secondo i dati aggiornati al 31 dicembre 2015, interessa 729 detenuti, tra cui sette donne. Il rapporto, approvato a maggioranza – con i voti favorevoli di tutti i gruppi tranne Forza Italia e M5s – ha consegnato a governo e parlamento alcune raccomandazioni, dopo aver raccolto segnalazioni che "riguardano aspetti materiali della vita quotidiana apparentemente di poca importanza, ma che risultano essere vitali in una condizione di reclusione così rigida come nel regime di carcere duro. E soprattutto vengono percepite dai detenuti come privazioni e afflizioni del tutto gratuite ed esercitate al solo scopo di intimidazione". Emblematica in questo senso è la frase in apertura della relazione, pronunciata da una detenuta incontrata dalla commissione: "Nonostante tutto, qui morti non siamo". Dal quadro dipinto dall'indagine si spera possa "nascere una riflessione", ha dichiarato il senatore Manconi, che abbiamo intervistato per capire quali siano realmente i termini della questione.
Di cosa parliamo quando facciamo riferimento al 41-bis?
Parliamo di una forma particolarmente pesante di reclusione nata in un contesto emergenziale, ma poi inserita in maniera permanente nel nostro ordinamento. Dunque, il 41-bis è un regime che oggi fa parte del nostro sistema giuridico.
La Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato – che lei presiede – ha indagato sul regime del 41-bis. Cosa avete riscontrato?
Abbiamo fatto un'indagine sul campo e ascoltato esperti. Non ci siamo limitati a visitare le sezioni del 41-bis, abbiamo incontrato in sede di audizione giuristi, funzionari dello stato, del ministero della Giustizia e dell'amministrazione penitenziaria e anche dell'Autorità nazionale antimafia per valutare insieme a loro come questo regime sia concretamente applicato. Le numerosissime visite che abbiamo realizzato avevano dunque l'obiettivo di confrontare ciò che era emerso da questo lavoro di discussione con la concreta realtà delle sezioni dove il regime viene applicato. Il nostro scopo non era tanto quello di mettere in discussione la normativa, cosa che non è stata mai nostra preoccupazione, né nostro intento, ma di valutare se la concreta, quotidiana, fattuale applicazione di quel regime rispettasse tutti i diritti e tutte le garanzie che la nostra Costituzione, il nostro ordinamento e il regolamento penitenziario prevedono per i detenuti.
In questi giorni si parla del pericolo che si voglia "depotenziare" l'istituto.
Mai sentito nulla del genere. Io so solo che il rapporto della commissione per la tutela dei diritti umani è stato approvato a maggioranza e ha avuto apprezzamenti lusinghieri, tra cui quello di Gherardo Colombo e Giovanni Maria Flick. Il resto mi sembra una polemica strumentale. Per capirci, quello che noi con il nostro rapporto abbiamo fatto è stato verificare come la legge sul 41-bis viene messa in pratica. E abbiamo indicato tutti i punti che dalla nostra indagine risultano non applicati, applicati malamente o applicati in una maniera non giustificata.
Stando a quanto emerso dal vostro lavoro, cosa significa concretamente il regime del 41-bis?
Ho parlato prima dello scopo della nostra indagine perché non va mai dimenticato che, nonostante quanto si vada ripetendo erroneamente in continuazione, il 41-bis non è il regime del carcere duro. Questa formula inganna: perché regime di carcere duro nel senso comune significa un carcere dove ci sia il massimo dell'afflizione, la pena più dura, la limitazione più acuta delle libertà e delle garanzie. Ecco, questo non c'entra nulla con il 41-bis, che ha uno scopo e uno solo: quello di impedire i rapporti tra i detenuti e la criminalità esterna. Se, paradossalmente, questo scopo fosse ottenibile attraverso un carcere "dolce", il 41-bis sarebbe comunque rispettato. Tutte le misure finalizzate a impedire il collegamento con l’esterno sono legittime, ma non quelle che rendono insensatamente più intollerabile la pena.
Quali sono i divieti "insensati" che avete riscontrato durante l'indagine?
Possiamo dire che tutto ciò che esclude lo scopo di impedire i rapporti tra i detenuti e la criminalità esterna possa essere considerato illegale. Ad esempio, non si capisce perché una persona che si trovi in regime di 41-bis da un giorno all'altro non possa più disporre del numero di bloc notes cui aveva diritto il giorno prima, ma di un numero ridotto a un decimo. C'è una ragione in questo? Assolutamente no. E qualora ci fosse, questa ragione è stata mai documentata, argomentata, spiegata? Assolutamente no. Dunque è una limitazione alla lettera "insensata", cioè priva di un senso, di una sua vera finalità. Un altro caso che ci è capitato è quello di un anziano detenuto con l'hobby della pittura, cui è stata negata l'autorizzazione a tenere in cella tela e colori. Può dipingere solo un'ora al giorno nella stanzetta della socialità. Perché non può realizzare lo stesso quadro, con gli stessi strumenti, con gli stessi pennelli e sulla stessa tela nella propria cella? Poi ci sono detenuti che rimangono sottoposti al regime speciale fino al giorno precedente l’uscita dal carcere. Ci sono, dunque, una serie di limitazioni, insieme ad altre che potrei citare che non rispondono a una motivazione razionale.
Nella parte delle raccomandazioni che la commissione fa al governo e al parlamento si parla dell'adeguamento a "standard minimi di abitabilità". Ci sono condizioni che non vengono rispettate per i detenuti al 41-bis?
Esattamente, si tratta di standard che che dovrebbero valere anche per loro, invece spesso non è così. Mi spiego meglio con un caso concreto: i detenuti al 41-bis hanno diritto per legge a un'ora di colloquio al mese. Si tratta di persone che magari stanno a Cuneo, con familiari che invece abitano in Sicilia. Se salta quell'ora prevista, ad esempio, per il mese di marzo, perché non è possibile recuperarla nel mese successivo? C'è forse una ragione di sicurezza nell'impedire che a quell'ora non utilizzata a marzo venga aggiunta quella di aprile? Ovviamente no, o comunque non c'è una ragione di sicurezza che venga spiegata o argomentata. E, dunque, si finisce per assumere nei confronti di quel detenuto una volontà afflittiva, cioè di indurimento del suo regime carcerario che non ha nulla a che vedere con ciò che la legge prevede attraverso il 41-bis.