Privazione della libertà
Stati d’emergenza, uno dietro l’altro
Lo Straniero, 1 luglio 2016
Luigi Manconi e Stefano Anastasia
Con “l’attacco al cuore dell’Europa”, il terrorismo islamista pone ancora una volta le democrazie e gli stati di diritto di fronte alla terribile e fallace scelta tra libertà e sicurezza. Come dopo l’11 settembre statunitense, già in Francia, all’indomani della crudele notte del 13 novembre sono stati adottati provvedimenti eccezionali, con una esplicita subordinazione delle garanzie dello stato di diritto alle necessità delle investigazioni di polizia e alle domande di rassicurazione sociale della opinione pubblica (ne ha puntualmente scritto Antonella Soldo, su “il manifesto” del 26 gennaio 2016), fino alle proposte di modifiche costituzionali che hanno portato alle dimissioni della ministra della giustizia Christiane Taubira.
La costituzionalizzazione dello stato di emergenza fu oggetto di discussione anche negli Stati Uniti colpiti dagli attentati di Al Quaeda: autorevoli giuristi si chiesero se non si dovesse riconoscere, e quindi regolamentare, la necessità di accedere allo stato di eccezione.
Inevitabilmente la discussione ha investito anche capisaldi della civiltà giuridica occidentale, come il rifiuto della tortura, da qualcuno considerata – in determinate circostanze – moralmente giustificata e dunque regolamentabile per legge. Tutto questo apparato di problemi e di argomentazioni si è riaffacciato dopo il 13 novembre francese. Giorgio Agamben, intervenendo nel dibattito affrontato da “Le Monde”, ha tracciato efficacemente le caratteristiche di quello “stato di sicurezza” che ispira le proposte di costituzionalizzazione dell’emergenza.
Se il Leviatano di Hobbes intendeva sconfiggere la paura della guerra di tutti contro tutti, lo Stato di sicurezza vive in una condizione di paura permanente, ragion d’essere della sua perenne emergenza, dichiarata o latente che sia. Questa condizione di paura permanente tende a spostare il conflitto politico lungo la contrapposizione identitaria tra “noi” e “loro”: i cittadini accomunati nella popolazione nazionale e gli stranieri tra cui potrebbe annidarsi il nemico. E se l’istituto giuridico della cittadinanza consente o ha consentito a stranieri morali o culturali di accedere al noi del popolo minacciato, essa può essere revocata, come è successo in altri tragici tempi e come è stato proposto nella revisione costituzionale francese.
Si scava così un solco tra il diritto penale liberale, riservato ai cittadini, e il diritto penale del nemico che si basa sul principio del sospetto, e dunque su congetture di polizia piuttosto che su verifiche giudiziarie, segnando il passaggio dal modello dello Stato di diritto a quello di polizia.
Non sappiamo se questa oscura parabola delineata da Agamben avrà modo di compiersi nella Francia repubblicana, patria dell’universalismo dei diritti, certo è che quando si tratta di emergenza e stato di diritto bisogna averla a mente. Qualche tempo fa, al Senato, in dichiarazione di voto sulla riforma costituzionale, Mario Tronti si è soffermato sulle responsabilità della politica nel contesto della depoliticizzazione della società. Come Agamben legge la “depoliticizzazione progressiva dei cittadini” in una partecipazione che “si riduce ai sondaggi elettorali”, così per Tronti il “problema politico di oggi è come curare, giustamente, il consenso senza rimanere vittime e subalterni all’opinione”, e citava quello che è stato il principale effetto giuridico degli attentati parigini nell’ordinamento italiano: la mancata depenalizzazione del reato di clandestinità. È giusto farlo, è anche opportuno, sostenevano gli operatori del settore, ma – diceva il Governo – non si può, perché la percezione d’insicurezza da parte della gente non lo consente. Ma il “compito della politica”, dice Tronti, “è dimostrare, far capire, convincere”. Viceversa, il ministro Alfano ha tirato in ballo proprio la contingenza internazionale per giustificare l’impossibilità di depenalizzare il reato di clandestinità, legando emergenza e percezione di insicurezza, secondo – appunto – i canoni dello “Stato di sicurezza”. Né è meno inquietante la rivendicazione che lo stesso Ministro ha fatto delle espulsioni per motivi di sicurezza nazionale.
Si tratta evidentemente di provvedimenti adottati sulla base di una norma extra ordinem, fondata sul mero sospetto che il destinatario sia pericoloso per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. E non tranquillizza il fatto che il ministro adotti quella che chiama “una giurisprudenza interna molto severa”, che si ispirerebbe al principio per il quale “preferiamo correre il rischio di un’espulsione un po’ rude piuttosto che trovarci in Italia un fanatico che aspira alla violenza ma che fino a quel momento non l’ha esercitata o non ha organizzato un piano terroristico”. La massima – un po’ casereccia e sgangherata, si riconoscerà – riecheggia quella francese che, con assoluta discrezionalità del potere giudiziario e di polizia – individua il nemico in ogni persona il cui comportamento potrebbe costituire “una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale”.
Nella “giurisprudenza” del ministro Alfano questo arbitrio ha un limite (si applica solo agli stranieri), ma questo – piuttosto che attenuare l’abuso nei confronti dei destinatari – aggiunge a esso la discriminazione per cittadinanza.
D’altro canto, l’Italia ha una lunga storia in materia di legislazione d’emergenza, fondata sui più disparati canoni di “pericolosità sociale”, inaugurata alla fine degli anni sessanta con la strage di Piazza Fontana e da quell’emergenza chiamata “stragismo” e, poi, in successione serrata, seguita da una sequenza di “stati d’eccezione”: terrorismo rosso, terrorismo nero, mafia, camorra e ‘ndrangheta, aids, corruzione politica, immigrazione irregolare, tifo violento, pedofilia, Black Block, fondamentalismo islamista, l’“emergenza rifiuti”, “gli zingari!”, “gli albanesi!”, “i rumeni!”. (Ma anche colera, terremoti e altri disastri naturali, sars, influenza aviaria…).
Ciascuno di questi diversi eventi ha una sua specificità e, mentre tutti suscitano allarme (e gestione politica dell’allarme), soltanto alcuni producono una vera e propria emergenza: ossia un salto (di varia durata e intensità) che altera, più o meno sensibilmente, l’ordinario ritmo della vita collettiva, introducendo elementi di rottura (di fatto e di diritto) nel sistema
delle relazioni sociali, nella sfera pubblica e nell’ordinamento giuridico. Ma, nel senso comune, la percezione è, probabilmente, sempre la medesima: per chi vuole “solo lavorare e vivere in pace”, la scena pubblica offre una successione di eventi-choc, e pone al centro dell’attenzione (delle preoccupazioni primarie e delle strategie di adattamento) la questione della sicurezza.
In effetti, è la negazione della sicurezza – ovvero l’insicurezza come stato d’animo di ampia diffusione e di lungo periodo – a costituire la vera emergenza nazionale, e non questo o quel motivo di allarme. Qui si apre un capitolo di vitale importanza e di ardua decifrazione.
Partiamo da un dato: nel corso dell’ultimo quarto di secolo, il numero degli omicidi volontari – il più classico e cruento dei delitti – ha conosciuto un calo impressionante, riducendosi di oltre due terzi: dagli oltre 1700 dei primissimi anni novanta, ai meno di 500 del 2014. E parallelamente, pur all’interno di un trend discontinuo, anche i “reati di strada” e predatori, dopo avere registrato picchi notevoli, a partire dal 2013 diminuiscono. Ma è esattamente nello stesso periodo che, nella percezione dell’opinione pubblica, quel sentimento di insicurezza, resta inalterato o piuttosto tende a innalzarsi ancora. Molte le possibili spiegazioni e, com’è probabile, tutte insoddisfacenti.
È possibile, per capirci, che sull’insidia percepita contro il patrimonio e contro l’ordinato svolgersi della vita quotidiana, si scarichi l’ansia collettiva per una condizione di incertezza sociale – come si dice “per sé e per i propri figli” – che è uno dei risultati della crisi economico- finanziaria dell’ultimo decennio. Ma al di là delle spiegazioni, ancora tutte fragili, ciò che conta sottolineare è come sia questa sorta di allarme sociale permanente a rendere accettabile, quando non auspicabile, l’adozione di politiche che legittimano istituzionalmente l’angoscia collettiva e offrono risposte che appaiono contro-allarmistiche, in quanto fondate su meccanismi di rassicurazione dall’alto.
Da tutto ciò discende una questione concettualmente chiara, ma assai controversa sotto il profilo giuridico e politico-istituzionale: il ricorso allo stato d’emergenza salva o indebolisce la democrazia e lo stato di diritto? Risponda ognuno come crede, sulla base delle proprie esperienze e competenze. E, tuttavia, c’è un dato sul quale vale la pena coltivare un dubbio serio. Tutti gli stati d’eccezione e le legislazioni d’emergenza finora conosciuti dalle nostre istituzioni repubblicane avevano un’origine congiunturale e una promessa di transitorietà: anche quelle emergenze che più hanno inciso sulla legislazione e sulle relative garanzie, come lo stragismo, il terrorismo rosso e quello nero, la criminalità organizzata.
Ma proprio quest’ultimo fenomeno propone una riflessione istruttiva.
L’apparato normativo per il contrasto nei confronti delle mafie ha introdotto in via eccezionale il “carcere speciale”, solo dopo entrato stabilmente nell’ordinamento. In origine il 41bis era destinato a durare tre anni, quindi il termine fu prorogato tre volte fino alla “stabilizzazione” del 2002. Se ciò è potuto accadere, si deve, tra l’altro, al fatto che è diventato senso comune che la criminalità organizzata sia, se non un elemento costitutivo, certo un fattore permanente del sistema economico-sociale e politico-istituzionale. Se si applica una simile interpretazione a quella che viene definita la “minaccia jihadista”, avvertita come stabile nel tempo, più di tutte le altre minacce, è agevole comprendere come siano prevedibili e destinati a durare mutamenti profondi nei sistemi dei diritti e delle garanzie.
E, tuttavia, non è facile prevederne l’effettiva utilità in quei sistemi, e dunque, in fondo, per le nostre libertà. Meglio, molto meglio – come ha proposto il ministro Orlando – riprendere e portare a compimento i progetti “ordinari” di collaborazione, coordinamento e integrazione tra organi, istituzioni e procedure investigative e giudiziarie a livello europeo.