Privazione della libertà
Da Parigi a Stoccolma, dove la pena non esclude
Pagina99, 22-12-2015
Valentina Calderone
Stupirebbe scoprire come, andando in giro per l'Europa, sia molto comune incontrare per strada persone che stanno scontando una condanna per aver commesso un reato. È impossibile riconoscerle, non indossano segni distintivi particolari. Così, se a Bruxelles vai a trovare un anziano in una casa di cura, potresti non accorgerti che l'uomo affaccendato intorno al letto del tuo caro sta espiando una pena.
Si chiama lavoro nell'interesse della collettività, e può avere varie forme: l'obbligo di pulire delle aree pubbliche, di fare manutenzioni in spazi verdi o di prestare servizio presso un ospedale. Il fondamento di questa sanzione risiede nell'idea della riabilitazione dell'autore di un reato attraverso l'adesione volontaria a lavori di utilità sociale. Non trattandosi di un impiego retribuito non può essere obbligatorio, ma accettarlo significa risparmiarsi l'ingresso in carcere. I Paesi che hanno adottato questo metodo come pena principale - Belgio, Francia, Paesi Bassi - sanno bene quanto il carcere, soprattutto quando sanziona reati di lieve entità, sia estremamente dannoso (basti pensare che in Francia le pene non detentive arrivano al 69%: a fine 2014, per 77.291 persone in carcere ce n'erano 172.007 in misura esterna).
Meglio allora investire in attività che abbiano come scopo quello della revisione critica dell'azione criminale, inserendo gli autori nella collettività, non escludendoli. Misure di comunità, appunto, proprio perché in quella società il reo prima o poi dovrà tornare. Certo, se nella comunità esistono persone responsabili di reati, allo stesso modo esistono le loro vittime ed è lecito chiedersi se e come queste ultime siano prese in considerazione.
Il furto di un computer portatile, per esempio, ha diversi significati. Per chi lo ha rubato è solo uno strumento da possedere o vendere, per il tribunale è un oggetto con un valore di mercato, per il proprietario può essere il contenitore di fotografie, di appunti di lavoro o di musica collezionata in anni di ascolto. Trovarmi davanti la persona a cui ho rubato il computer, scoprire che con il mio gesto ho distrutto ricordi irrecuperabili e mesi di studio, può essere più efficace di qualche mese di carcere.
Allo stesso modo avere l'occasione di parlare con chi mi ha fatto un torto, ascoltare le sue ragioni e poter avanzare delle richieste, è utile tanto quanto - se non più - del risarcimento in denaro. Questo istituto si chiama mediazione penale ed è il cardine della giustizia riparativa, contrapposta a quella retributiva. In Paesi come Germania, Francia, Svezia e Regno Unito viene applicato per reati che prevedono pene brevi, in Austria la possibilità di avvalersi della mediazione è prevista per quelli puniti fino a un massimo di cinque anni.
Non è certo il denaro la soluzione a ogni problema di giustizia, ma di sicuro le sanzioni pecuniarie comminate come principali in luogo del carcere possono rappresentare un'importante opportunità, soprattutto in un sistema come quello italiano in cui il costo medio per detenuto è di circa 124 euro al giorno. In Germania, e in molti altri Stati, esiste l'istituto del giorno-ammenda: a fronte dell'individuazione della pena detentiva da infliggere, viene calcolato il corrispondente ammontare pecuniario dovuto dall'autore del reato.
Nei Paesi in cui la sua applicazione ottiene migliori risultati in termini di riscossione, la somma dovuta non viene calcolata a parametri fissi (come avviene da noi), ma commisurata all'effettiva capacità del reo di farvi fronte. La principale differenza con l'Italia risiede proprio nell'idea di cosa debba essere la pena. Nel nostro Paese quasi tutto si risolve in pena detentiva o pena pecuniaria. Gli ultimi dati relativi ai condannati risalgono al 2011 e su 332.473 delitti compiuti, solo il 18,1% sono stati sanzionati con una multa e, inoltre, solo il 10,14% delle pene era superiore a due anni.
Un esercito di condannati a pochi mesi i quali, se non possono usufruire della sospensione condizionale o di misure alternative, finiscono dentro un carcere. Pur essendoci nel nostro ordinamento molte misure diverse, il punto è proprio che queste sono "alternative" alla detenzione, innegabilmente utilizzata come pena principale.
Sapere poi che per queste alternative viene destinato solo il 2,5% dei tre miliardi del bilancio dell'amministrazione penitenziaria (vedi il grafico in basso), e che negli uffici dell'esecuzione penale esterna sono impiegate 1.500 persone per gestire 32.400 pratiche, senza contare le messe alla prova, dà la misura di quanta strada ci sia ancora da fare per raggiungere l'Europa.