Tortura
I fatti di Lunigiana e il Parlamento
Il Manifesto, 15 giugno 2017
di Luigi Manconi
Tortura e non solo. Agli otto i carabinieri indagati vengono imputate violenze - che l’attuale codice penale consente di qualificare solo come «lesioni» - la cui origine risiede proprio nell’esercizio illegale di un potere legale
Le misure cautelari adottate nei confronti di otto carabinieri, su circa una ventina di indagati di due caserme della bassa Lunigiana, costituiscono un utilissimo manuale per la più puntuale lettura e la più attendibile interpretazione della legge sulla tortura di prossima approvazione.
Quest’ultima è una cattiva legge, innanzitutto perché – diversamente da quanto previsto dalla convenzione delle Nazioni Unite in materia – non definisce la tortura come un reato «proprio»: un reato, cioè, formulato sull’imputazione di quella fattispecie penale ai pubblici ufficiali e a chi esercita pubblico servizio. Nel testo approvato al Senato, la tortura è, invece, un reato «comune», volto a punire qualunque violenza intercorsa tra individui. Mentre sarebbe dovuto essere un reato «proprio», in quanto derivante in forma diretta da un abuso di potere. La tortura è, insomma, la fattispecie penale in cui incorre chi, custodendo legalmente un cittadino, abusa del proprio potere per esercitare una violenza illegale. E lo si sarebbe dovuto trascrivere così nel nostro codice, quel reato, non certo per uno speciale accanimento contro i corpi di polizia, ma proprio per tutelare meglio questi stessi corpi. La loro autorevolezza e il loro prestigio, la loro forza e – se volete – il loro «onore» dipendono dalla capacità di individuare e sanzionare adeguatamente chi, tra gli uomini dello Stato, abusa del proprio potere e commette illegalità, separandoli da quanti (e sono la maggioranza) si comportano correttamente. La vicenda, venuta alla luce proprio in queste ore, a carico di numerosi carabinieri della provincia di Massa Carrara, dimostra in maniera inequivocabile quanto il testo della legge sulla tortura che il Parlamento prevedibilmente approverà nelle prossime settimane sia sbagliato.
I fatti parlano chiaro. Agli appartenenti all’arma dei Carabinieri indagati vengono imputate violenze – che l’attuale codice penale consente di qualificare solo come «lesioni» – la cui origine risiede proprio nell’esercizio illegale di un potere legale. Le vittime (spacciatori e prostitute) vengono condotte in caserma in base a una norma esistente (magari pretestuosamente interpretata, ma questo è un altro discorso) e qui subiscono trattamenti inumani o degradanti, se non addirittura torture.
Evidentemente tutto ciò va confermato da una sentenza passata in giudicato, ma il quadro che si delinea è estremamente significativo. La tortura nasce nel diritto internazionale come crimine delle autorità pubbliche e non di soggetti privati, per i quali vi sono altri strumenti di repressione penale. Ha bisogno di tempi lunghi di prescrizione perché l’accertamento dei fatti non è agevole. E la sua configurazione come delitto «proprio» sarebbe di ben più concreto aiuto per il lavoro dei giudici. In quest’ultima, come in molte vicende precedenti, non siamo di fronte a ordinarie violenze tra comuni cittadini né a esercizi di efferatezza da parte di criminali sadici. Piuttosto abbiamo a che fare, se quanto finora emerso risultasse vero, con un sistema di comportamenti che, a partire dall’uso legittimo di istituti come il fermo e l’arresto, tendono a trascendere in uso arbitrario della forza che si fa pratica crudele. È qui il fondamento stesso del concetto di tortura e la sua ignobile verità.
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