Cie
Il Cie di Bari va ristrutturato o chiuso. Parola di Tribunale
24 gennaio 2014
La prima volta in cui abbiamo scritto della vicenda del Cie di Bari su queste colonne era il marzo 2011. Quasi tre anni fa ormai, i due avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci si sostituirono al Comune e alla Provincia di Bari per citare in giudizio civile la presidenza del Consiglio dei ministri, il ministero dell’Interno e la locale Prefettura chiedendo al Tribunale di disporre l’immediata chiusura del Centro di identificazione ed espulsione barese per violazione dei diritti universali dell’uomo. La domanda venne ammessa e fu disposto un accertamento tecnico che confermò lo stato di detenzione degli «ospiti» nonché le carenze strutturali e igienico-sanitarie del centro. A seguito di questa pronuncia, il Cie di Bari venne ristrutturato e il Tribunale dispose una ulteriore perizia per verificare le nuove condizioni del centro e la sua conformità ai parametri legali.
L’associazione Class Action Procedimentale (www.classactionprocedimentale.it), con i due avvocati prima citati, ha seguito per anni questa vicenda per la quale, appena qualche giorno fa, c’è stato un importante risultato. Il tribunale di Bari ha infatti intimato al ministero dell’Interno e alla locale Prefettura di eseguire, entro il termine improrogabile di 90 giorni, i seguenti lavori: ampliare e migliorare i servizi igienici, incrementandone il numero; provvedere all’oscuramento, anche parziale, delle finestre della stanze d’alloggio; ampliare la mensa o la «sala benessere»; incrementare le aule per attività didattiche, occupazionali e ricreative, così come le aree adibite alle attività sportive; colmare la carenza di segnaletiche antincendio nei moduli abitativi; provvedere alla manutenzione dei moduli e utilizzare materiali resistenti all’usura e allo strappo.
Se questi adeguamenti non saranno portati a termine, il Cie di Bari dovrà essere chiuso. Il giudice Francesco Caso, nello scrivere la sentenza, afferma cose molto importanti. Una parte significativa di questo procedimento era mirato a capire se gli «ospiti» si trovassero o meno in condizioni di detenzione. Il giudice Caso scrive: «L’adozione di un determinato lessico, per così dire, non “carcerario”, non è decisiva, e anzi può apparire ipocrita, nella misura in cui ciò che non si chiami, o non si voglia chiamare, “carcere” o “detenzione” risulti di fatto ancor più mortificante degli istituti così ufficialmente denominati, per come disciplinati». I trattenuti all’interno dei Cie sono privati della libertà personale ma, appunto, non godono delle garanzie spettanti a chi si trova in carcere, come il giudice specifica in un altro passaggio della sentenza: «Non è azzardato concludere che, se lo stato degli stranieri trattenuti nei Cie in vista della loro espulsione fosse stato davvero assoggettato alla disciplina dell’ordinamento penitenziario vigente, la loro condizione sarebbe stata migliore e comunque molto più “garantita”, quanto meno sul piano formale». Questa sentenza apre l’ennesima voragine all’interno del sistema dei Cie che, a quanto pare, sta crollando da tutte le parti.