Cie
La protesta al Cie rientra. "Ora aiutateci"
l'Unità 28 dicembre 2013
Valentina Brinis
La visita di ieri al Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria, organizzata dal senatore Luigi Manconi e alla quale ha partecipato il deputato Khalid Chaouki, sollecitata dalle sedici persone che attualmente stanno protestando, ha dato la possibilità anche al più silenzioso e al più in ombra dei trattenuti di raccontare il come e il perché si trova lì dentro.
È così che si fa conoscere Amed la cui storia è solo una delle numerose che si sentono entrando in un posto come il centro di identificazione e di espulsione. Sono storie che, al di là del contenuto, colpiscono per il modo in cui vengono raccontate. Amed lo fa con una voce monotonale ed esprimendosi in un italiano quasi perfetto. Il suo sguardo è atterrito e disilluso e, mentre parla, rigira tra le dita un cappio realizzato con le lenzuola di carta fornite dal centro. Minaccia di usarlo il 31 dicembre, a capodanno, perché è in quel giorno che vuole farla finita. È fuggito dalla Libia durante il conflitto con il regime di Gheddafi. Dopo la lunga e drammatica traversata del tratto di mare che separa le coste africane da quelle europee, arriva in Sicilia. Questo accadeva tre anni fa quando Amed era ancora minore e per la nostra legislazione aveva diritto a un permesso di soggiorno e a una tutela particolare. Ed è infatti quello che ottiene fino a presentare la domanda di asilo e ricevere una protezione in Italia perché in Libia non può più tornare.
Conoscerà l’esito di quella procedura, un permesso per motivi umanitari, solo due anni dopo e con un anno di ritardo rispetto alla data del rilascio, a causa di qualche mese trascorso in carcere. Saranno proprio quei precedenti penali a impedirgli, una volta fuori, di ritirare il titolo di soggiorno. Ora è lì in attesa di essere identificato ma non è dato sapere quando ciò accadrà. Stando alle statistiche per cui solo il 40% dei trattenuti viene identificato e poi espulso, Amed potrebbe essere tra quelli che questi passaggi non li vivranno mai e usciranno dal Cie con un decreto di espulsione. Nel migliore dei casi, ed è quello che gli si augura, riuscirà a recuperare la protezione umanitaria e magari a intraprendere un suo percorso di integrazione nella società italiana. Amed non partecipa alla protesta che si sta tenendo in questi giorni al Cie, perché la sua è una storia diversa da quella delle sedici persone che attualmente la stanno portando avanti.
La loro manifestazione consiste nel rifiuto del cibo e nel dormire all’aperto. Il corridoio centrale nel reparto maschile che separa gli spazi esterni di ogni stanza è diventato il luogo di quella protesta ed è proprio lì, infatti, che erano stati portati i materassi, le lenzuola di carta e le coperte fino al tardo pomeriggio di ieri. E dove i due parlamentari Manconi e Chaouki hanno incontrato quelle sedici persone. Si tratta di uomini provenienti dal Maghreb la maggior parte dei quali arrivata via mare sulle coste della Sicilia che, dopo un periodo di accoglienza in un apposito centro (Cda) sono stati trasferiti direttamente in un Cie in quanto sprovvisti di documento valido per rimanere sul territorio italiano. Ci appaiono stanchi e provati da sei giorni di protesta sospesa, ci dicono, solo il 25 per rispetto del Natale dei cristiani.
Alcuni di loro già dallo scorso sabato si erano cuciti le labbra e sarebbero stati disposti a cucirsi anche le palpebre se non fosse stato per una decisione collettiva di cambiare modalità di azione, e propendere per una lotta comunque dura ma meno cruenta. Chiedono di essere liberi ben sapendo che si tratta di un obiettivo attualmente irrealizzabile a causa di quei tempi infiniti di identificazione. Ed è proprio la riduzione del periodo di trattenimento uno dei punti sui quali il Governo potrebbe intervenire, oltre alla stipula di protocolli di collaborazione con le autorità diplomatiche per velocizzare quella procedura e all’identificazione in carcere per i detenuti stranieri. Se quest’ultima prassi venisse adottata, come già previsto dal recente decreto del ministro Annamaria Cancellieri, si eviterebbe l’ingresso al Cie utilizzando strumenti quali l’espulsione o l’accompagnamento alla frontiera immediatamente dopo la fine della pena.
In ogni caso si dovrebbero adottare alcune misure che porterebbero un immediato sollievo alle persone che vivono nei Cie. Una di queste riguarda l’organizzazione di iniziative all’interno dove, a parte qualche corso d’italiano, la regola è l’inattività più assoluta. Attualmente, infatti, quando non c’è la televisione (e per molti trattenuti non c’è) si cammina, si parla con i connazionali (quando ce ne sono), si fuma e si beve caffè. E i pensieri, che sono sempre gli stessi, diventano angoscianti fino a soffocare.
La paura del futuro diventa totalizzante e ingestibile. Per chi visita i Cie è sicuramente questa una delle sensazioni più tangibili. Ed è quello che abbiamo provato ieri di fronte alla coppia di tunisini, Aliaa e Alì, chiamati “Romeo e Giulietta”. Lunedì scorso lei ha tentato di suicidarsi, terrorizzata dal possibile rimpatrio nel proprio Paese dove ad attenderla ci saranno i suoi fratelli contrari al suo matrimonio. Aliaa sul proprio corpo porta i segni di quell’ostilità: una grande cicatrice sull’avambraccio destro. La loro storia, e la loro paura del rimpatrio, meritano un’attenzione particolare, una protezione e una tranquillità che non possono trovare all’interno del Cie. Per questo il senatore Manconi ha chiesto al ministro dell’Interno la concessione di un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie. Ma resta la sensazione terribile che come loro, molti altri si trovano a vivere quell’ansia paralizzante.