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Notizie

87 Ore: un film su la “nuda vita” di Mastrogiovanni

87oreDario Cecchi

Il lavoro culturale, 9 novembre 2015

87 Ore, l’ultimo film di Costanza Quatriglio, un film estremo.

Sui fatti narrati, il tragico decesso del maestro cinquantenne con simpatie anarchiche Francesco Mastrogiovanni a seguito di un Trattamento Sanitario Obbligatorio presso l’Ospedale San Luca di Vallo della Lucania il 4 agosto 2009, non mi soffermo: è un fatto di cronaca che ha avuto risonanza sulla stampa nazionale. A tutto ciò ha fatto seguito anche un processo che ha stabilito condanne per i medici responsabili del TSO; attualmente è in corso il processo d’appello, che potrebbe rimettere in discussione anche la posizione degli infermieri.

Il film di Quatriglio attraversa le domande di giustizia che il caso ha sollevato: quella della famiglia di Mastrogiovanni, quella della stampa e quella di associazioni ed esponenti politici che hanno supportato, e supportano, la famiglia. La regista raccoglie tutte queste domande prendendo in carico la responsabilità di elaborare il debito di testimonianza che una simile storia porta con sé. La scelta registica di Quatriglio vira però in una direzione molto diversa da quella che suggerirebbe una storia tanto drammatica – molti dettagli della vicenda restano opachi – sostenuta poi da un così forte clamore. La tentazione sarebbe stata quella di ricostruire la biografia della vittima, fare ipotesi sul possibile accanimento contro la sua persona nel momento in cui questi dà segni di perdere la lucidità, infine di aprire uno spaccato sulla realtà sociale locale: se vogliamo, una “microstoria” per immagini.

La scelta di Quatriglio è più sperimentale, ma per questa ragione anche più arrischiata; si può dire però che è una sfida ampiamente vinta dalla regista. Va detto innanzitutto che sarebbe sbagliato ricondurre la sperimentazione della regista a classiche distinzioni come quelle tra cinema “di narrazione” e cinema “di montaggio”, o tra cinema che non fa sentire la macchina da presa e cinema che invece la fa sentire. Queste coppie di concetti presuppongono che si postuli, a un qualche livello del discorso cinematografico, l’opposizione tra dispositivo narrativo e costruzione dell’immagine, se si vuole tra leggibilità e figuralità del montaggio. Il trattamento dell’immagine in 87 Ore tende, al contrario, a un innalzamento della potenza narrativa proprio attraverso un montaggio sperimentale. Il film è costruito, infatti, quasi esclusivamente partendo dai materiali delle telecamere di videosorveglianza dell’ospedale dove Mastrogiovanni è stato ricoverato e poi è morto. Questo materiale era già stato reso pubblico sul sito de L’Espresso, il settimanale che per primo ha fatto conoscere i fatti. Costanza Quatriglio ha lavorato a stretto contatto non solo con la famiglia di Mastrogiovanni, ma anche con i politici, i giornalisti e le associazioni che si sono preoccupati di fare luce sulla vicenda: ciò le consente di assumere a un livello non banale l’istanza narrativa che si preoccupa di soddisfare. La storia di Mastrogiovanni non si pone più come un fatto, un oggetto da mettere in relazione con una rappresentazione. Il film agisce piuttosto da collettore dei diversi discorsi che si sono istituiti alla luce dell’accadimento della “passione e morte” di Mastrogiovanni, rielaborandone il senso. 87 Ore si colloca al centro del campo di tensioni tra due poli distinti: da una parte tende verso la forma film, che spinge in direzione della compiutezza narrativa della storia; dall’altra verso la forma medium, che vuole invece l’allargamento degli spazi di condivisione dell’informazione e di manipolazione dell’immagine.

87 Ore è in questo senso un film compiutamente intermediale. Lo è d’altronde anche in un senso più profondo, che rende ragione dell’estrema innovatività con cui si colloca nel panorama del cinema del reale, oggetto già negli ultimi anni di un forte fermento di rinnovamento. Il risultato cui perviene Quatriglio non è quello di una negoziazione tra le due istanze sopra indicate, bensì dell’individuazione di uno spazio di elaborazione dell’immagine a partire dal quale quelle due istanze possono essere profondamente ripensate: la prospettiva è perciò rovesciata e, in tale prospettiva, riacquista valore in termini inediti l’ipotesi di un’autonomia del lavoro creativo. Fatte salve la sequenza iniziale girata sulla spiaggia dove fu fermato Mastrogiovanni, su cui dovremo tornare, e gli intermezzi che riportano le testimonianze del processo e le interviste ai familiari, il film è interamente dedicato a un lavoro di ricostruzione – uso il termine in un’accezione forte: è ri-costruzione, ricostruzione che non si dà senza costruzione narrativa – delle 87 ore vissute dal protagonista nell’ospedale, così come ce le restituiscono le telecamere di sorveglianza.

Queste immagini non sono ancora una testimonianza né un documento. Sono una traccia inscritta nella forma di un tracciato video. Lavorando su questo tracciato la regista arriva ad analizzarlo fotogramma per fotogramma. Quatriglio non tenta di scovare una possibile verità nascosta tra le pieghe dell’immagine. L’intento è diverso. La regista parte dall’assunto che molti discorsi pubblici (giornalistici, etici, politici, giudiziari) sono stati prodotti attorno a questa vicenda. È impressionante, ad esempio, ascoltare le parole della deposizione di uno degli infermieri coinvolti, lette dalla nipote di Mastrogiovanni e sovrapposte alle immagini dell’ospedale: il tono a mezza strada tra il tecnico, il giuridico e il colloquiale della deposizione risuona in modo spiazzante una volta messo a raffronto con le immagini della vita nell’ospedale. Non ha senso che l’immagine tenti di sostituirsi a tali discorsi come un’istanza di verità superiore; meno che mai accontentarsi di svolgere un ruolo puramente “illustrativo”. Ha senso che di tale vicenda le immagini elaborino le condizioni di esperibilità, quali i discorsi detti e scritti tendono, invece, a racchiudere in griglie precostituite.

Usando il linguaggio della biopolitica, Quatriglio non mostra la logica della sorveglianza, la sua episteme; non esibisce il funzionamento di una minuscola società disciplinare. Piuttosto fa emergere l’esperienza di una “nuda vita”, quale essa è presupposta da una simile società e quale Mastrogiovanni ha conosciuto nelle 87 ore di permanenza nell’ospedale prima di morire. Quello scelto dalla regista è un compito più complesso rispetto alla narrazione dei meccanismi di una società disciplinare, grande o piccola che sia: il compito che la regista dà a se stessa richiede la capacità di mettere (e modulare) una distanza tra le immagini e le emozioni dei soggetti coinvolti, ad esempio i familiari, così come quelle che proverà il pubblico. La sequenza iniziale, girata presso la spiaggia dove è avvenuta la “cattura” di Mastrogiovanni, è in questo senso esemplare. La spiaggia è ripresa in un momento in cui è deserta. Vediamo solo il movimento del mare, che, come scopriremo, è stato un elemento molto importante nella vita di Mastrogiovanni, assumendo poi nel corso del film una certa ambivalenza simbolica: il mare è insieme vita e morte. Le testimonianze dei fatti avvenuti, raccolte dalla viva voce dei responsabili dello stabilimento dove sono avvenuti i fatti e da altri presenti, non sono associate ai loro volti ma alle immagini del mare: in questa visione lo sguardo dello spettatore può, per così dire, distendersi e predisporsi alla ricostruzione dei fatti, senza avere ancora alcun preavviso sulle modalità di messa in immagine della narrazione. È un inizio quasi “pittorico” del film, cui segue, accelerando e drammatizzando già il ritmo della narrazione, la breve ripresa in automobile verso l’ospedale dove è stato ricoverato Mastrogiovanni. L’effetto di estraneazione è ancora più forte, perciò, quando siamo catapultati in un mondo osservato interamente attraverso l’occhio delle telecamere di sorveglianza. E tuttavia è proprio attraverso questo choc, che non abbandona mai del tutto lo spettatore, che si può compiere la rielaborazione del rapporto che quelle immagini, all’apparenza così fredde, hanno con i sentimenti suscitati da questa vicenda.

87 Ore si colloca in un punto di svolta del cosiddetto “cinema della realtà” nel pieno del suo rinnovamento creativo. Il film prefigura inevitabilmente data la sua complessità – non solo per linguaggi usati, ma soprattutto per capacità di istituire un rapporto con il suo referente, la res de qua agitur – un “programma” futuro per questo modo di fare cinema. Costanza Quatriglio indica con grande lucidità come una delle strade principali che il cinema contemporaneo deve percorrere sia quella della ricerca su cosa si genera nello spazio di intersezione tra le memorie soggettive e i dispositivi di registrazione della realtà. È la soglia tra due modi di fare esperienza, o forse è il caso di dire tra le due facce di un medesimo processo d’esperienza che è propriamente quello del soggetto tecnoestetico contemporaneo.

Pubblicato: Martedì, 24 Novembre 2015 16:53

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