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Certo, dannati. Parole con Salvatore Mannuzzu

Matteo Demartis

Intervista realizzata per Barta, con disegno (in fondo) di F.R. Rossin

Molte cose cambiano nel corso della propria vita. Le si osserva mutare, spesso con quel senso di impotenza tipico dell'odissea umana, le si collega nelle loro strambe e controverse analogie, nei loro colori cangianti che sembrano spesso così simili. Si ha tuttavia il miraggio, l'illusione -che in certi momenti diventa una marmorea certezza- che qualcosa rimanga uguale. Malgrado tutti i cambiamenti, malgrado la ferocia del tempo c'è un comune punto di fuga, un nucleo che tutto tiene, nascosto da qualche parte, sotterrato o dimenticato. Sono profondamente convinto che questo nucleo abbia le sue segrete sinfonie, le sue musiche che ci appartengono come un rumore di fondo: come note lontane in una domenica mattina, malinconiche fisarmoniche, minuscoli pigolii del nostro sentire.

smannEcco, nel caso di Salvatore Mannuzzu, sono certo che se non tutta la musica, parte di quella musica siano gli incandescenti violini del Don Giovanni di Mozart. Il mito di Don Giovanni, nato da leggende medievali e formatosi -almeno nel primo nucleo storico- a Siviglia, ha l'infinità poliedricità dei miti immortali al pari del Faust o di Edipo: chiavi, enigmatiche a loro volta, della cultura occidentale. Don Giovanni e il suo mito attraversa la produzione di Mannuzzu, la condensa per poi spezzarla in infinite schegge: conquistatori, uomini melliflui e mentitori, inganni perfetti sono la strana ragnatela che tesse questo scrittore. Ritengo tuttavia che oltre ai plurivoci sensi che il mito di Don Giovanni acquista nella sua produzione, quelle musiche siano qualcosa di più, risuonino in lui come struggenti, in un eterno, personale canto del cigno. Ed ecco che da pigolio del nostro sentire, i rumori di fondo diventano spartito della nostra esistenza.

Salvatore Mannuzzu nasce a Pitigliano (Grosseto) nel 1930, da bambino viaggia per l'Italia seguendo i ritmi lavorativi del padre che, colpito dalla ''saudade'' di Sardegna, malattia frequente per molti isolani, torna al luogo natio. Cantore unico della sua città di provincia, è forse il primo scrittore che Sassari abbia mai avuto, se si esclude lo storico ottocentesco Enrico Costa. Scrittore e poeta, consapevole della storia e dentro di essa, tre volte parlamentare indipendente del P.C.I. nel decennio chiave del dopo guerra italiano 1976-1986, 21 anni magistrato, direttore della sezione giustizia del Centro per la riforma dello stato, è un intellettuale dalla fisionomia coraggiosa, che seppur sicuro -come lui afferma- della sconfitta finale, della perdita della vita ha proceduto per approssimazione verso la cangiante verità umana, con una costanza, coerenza e fedeltà difficilmente riscontrabili altrove.

Davanti a casa sua, nell'eterna Viale Caprera dei suoi libri, l'incertezza del momento mi fa temporeggiare un po' prima di suonare, ma la sua colf, che stava tornando dalle compere, mi nota, e, anticipandomi, mi fa da gentilissima guida fino all'entrata del suo appartamento. Lui fa capolino dal suo ufficio: è un uomo piccolo e dai capelli ancora scuri malgrado l'età avanzata, quasi a testimoniare una tenacia silenziosa che mi sembrerà poi di sentire -inconfondibile il sapore- nelle sue parole. Mi siedo davanti alla sua scrivania e la clessidra del tempo, con la sua finissima sabbia, inizia a scorrere, inesorabilmente. Il discorso cade subito sulle nostre comuni origini, fuori da ogni scaletta programmata. ''Lei mi dice che della Sardegna si ha nostalgia. Sa, succede a molti: mio padre l'avvertì subito, tant'è che decise di tornare. Poi guardi, mentre gli anni avanzano, succede qualcosa di strano in me. Io non ho mai parlato il sardo, lo capivo, quasi tutto, senza problemi, ma non l'ho mai parlato. Ora invece mi capita di ragionare in sardo, certo lo metto tra virgolette, ma penso, sentenzio in sardo. '' Le radici ci stringono spesso in modo incomprensibile, i loro echi lontani si fanno improvvisamente bisbigli chiarissimi alle nostre orecchie.

Abbiamo parlato di radici, Dottor Mannuzzu, ecco parlando di ben altre, più invisibili origini: come è iniziata la sua avventura letteraria, quando è successo?''Ho avuto diversi teatrini da piccolo, con marionette e fili annessi, li usavo e mi divertivo. Forse questo è stato il più acerbo inizio. Subito, già in prima media, scrissi la mia prima poesia: una cosa orribile , ovviamente, la feci leggere a mio padre che raffreddò in modo deciso i miei entusiasmi, come è giusto che vengano raffreddati. Non ho mai smesso da allora di scrivere poesie, almeno fino al 1994. L'ultima si chiamava ''Una visita'', ma se devo essere sincero ce ne sono altre, scrivo ancora ogni tanto. Per quanto riguarda la prosa avevo già un libro nel cassetto prima del concorso di magistratura . Fu Luigi Berlinguer a proporlo all'allora redattore per la Rizzoli, Carlo Ripa di Meana che ne cambiò il titolo. Usciva così Un Dodge a fari spenti, sotto pseudonimo. Poi smisi di scrivere, appena passato il concorso. Non volevo fossero criticate le sentenze con la motivazione che i miei racconti erano brutti.'' E' un fiume Salvatore Mannuzzu, racconta con infiniti dettagli le sue storie. E si intravedono, di lontano, i netti ma a volte deboli confini fra le sue differenti carriere: giudice, deputato, scrittore. Tutti e tre alla ricerca della verità, alla ricerca della minore approssimazione possibile della vita.

E in tutti questi lavori all'ombra di uno scranno di Montecitorio, nella pause delle udienze Salvatore Mannuzzu continuava a scrivere i suoi versi. ''Io non ho mai perso la tessera del P.C.I.'' continua snocciolando i suoi anni, man mano che le decadi gli sfilano nella mente.'' Sono sempre stato ,come dire, nel sistema, ma mai, con una parola un po' antiquata, nel quadro. Ho accettato la proposta di candidatura nelle lista indipendenti del P.C.I. . Se è esistita la disciplina di partito, per me è esistita nella sua essenzialità. Non ho votato le leggi anti-terrorismo, se guarda gli atti parlamentari è presente il mio intervento in cui motivo e difendo il mio voto contrario. Sono un garantista, alla fine. Sono stato convinto e forte relatore delle proposte di legge come Patti Agrari, Manette agli evasori, Legge Prodi.'' E' nel fumo della capitale, nel chiacchiericcio dell'Urbe, nei nell'andirivieni di piazza Colonna che l'uomo inizierà a trovare la stagione giusta per la muta o ecdisi, per meglio dire, che aveva forse aspettato per tutta la vita: la pelle dello scrittore. '' Durante la terza legislatura conobbi Natalia Ginzburg che era appena entrata nell'alveare del transatlantico. Una folla, davvero tanti, sfruttavano l'occasione della sua conoscenza per propinarle scritti. Io non lo feci mai. Eravamo molto amici e non mi sembrava rispettoso. Per quanto io avessi già un romanzo nella cassetto: Le Ceneri del Montiferro, scritto per un lutto che aveva straziato la mia esistenza. E intanto cominciavo a scrivere Procedura…''

Ecco, proprio in merito a Procedura, volevo chiederle: come è nato il romanzo, come, in quale giorno è nata la storia, l'idea, il plot, come si dice oggi. ''Non ricordo un giorno preciso, avevo avuto l'idea del plot- un morto che uccide un vivo- in quanto era molto congeniale alle mie logiche interne. Insomma, ritornando alle mie avventure editoriali, finisco Procedura e finisco anche la mia parabola politica, nel 1987, e allora, preso coraggio, decido di chiedere a Natalia se avesse voglia di leggere il mio libro: allora pensavo solo alle Ceneri del Montiferro, che ha un impianto davvero sperimentale. Lei sembrò entusiasta della proposta e glielo diedi. Con mia sorpresa, le piacque moltissimo.'' Il gioco inizia a farsi duro per Salvatore Mannuzzu, Natalia Ginzburg è in strettissimo collegamento con l'Einaudi che allora stava vivendo la sua più profonda crisi, con Giulio Einaudi chiamato a rispondere in tribunale di falso in bilancio. '' Era difficile per loro accettare nuovi progetti, perciò la mia proposta finì per un po' nel dimenticatoio. Fu in un pranzo con Luigi Manconi che arrivò il giro di boa. Ricordo ancora una buonissima pasta ai fagioli di cui lui si vantava e che, come al solito, non aveva cucinato lui. Lui mi avvertì di avere stabili contatti con la Mondadori, loro mi proposero un contratto e io chiamai immediatamente Ernesto Ferrero, allora direttore editoriale dell'Einaudi. Finì che Einaudi buttò giù il contratto per cui mi avrebbe pubblicato entrambi i libri: Le ceneri del Montiferro e Procedura.procedura

''Le luci dei camerini si spengono e il primo libro di Mannuzzu viene stampato entrando subito, a pieno titolo, nella scena letteraria: vince il premio Viareggio. E' un giallo, il primo libro di Salvatore Mannuzzu non scritto sottopseudonimo. Procedura va inteso come sostantivo deverbativo dal verbo procedere -più appropriatamente sottolinea l'autore da procéder- perché l’uomo più che solcare il suo percorso, in un faber fortunae suae di cui sono passati gli umanistici astri, procede senza che l’orizzonte schiuda un senso possibile. Infelice, forestiero, alcolista e solitario il sostituto procuratore, protagonista di Procedura, solca Sassari nell’attorcigliarsi dei fili di un'indagine su un delitto impossibile, si arrovella per una verità che , anche una volta svelata, sembra celarne altre in un gorgo infinito, dove tutto viene divorato, dove i nomi si confondono, il destino si smarrisce in un roteare senza fine. I personaggi di Mannuzzu sono personaggi perduti, spesso anonimi, reticenti e inconsolabili. Questi piccoli anti-eroi sui generis solcano un'isola che più che luogo fisico, isola in senso topografico, è metafora delle siderali distanze umane. Per contro, Mannuzzu ha intessuto nella sua vita -almeno a leggere le sue parole- rapporti saldi, magnetici e caparbi, come quello con l'allora professore di diritto di stato: Antonio Pigliaru. Antonio Pigliaru, il più brillante intellettuale sardo dopo Antonio Gramsci, colui che ha più analizzato e teorizzato il codice della vendetta barbaricino, dna della Sardegna centrale, ha avuto uno stretto rapporto con il nostro scrittore.

Dottor Mannuzzu, come ha conosciuto Antonio Pigliaru? ''Antonio Pigliaru mi contattò lui stesso, mi chiese di scrivere delle poesie per la rivista Ichnusa, allora scrivevo per una rivista ancora più piccola: Bufera. Antonio Pigliaru era un piccolo Socrate, e la sua casa, come tutti coloro che l'hanno frequentata sanno, era davvero una scuola di Atene. Pigliaru era, proprio nei suoi più profondi genomi, un maestro. La sua tensione per la ricerca e -quello che più importa- per la ricerca condivisa, era palpabile. Amava insegnare. Ma credo di averla portata lontano con tutta queste deviazioni, cosa mi voleva chiedere?'' - Se proprio deve chiederle qualcosa, questo è il tempo atmosferico dei suoi libri. Pioggia , grandine, grecale o maestrale scandiscono le pagine dei suoi libri, ma sono qualcosa di più di avvenimenti atmosferici, un barometro dell'anima preciso e instancabile. Fra tutti la neve ha un posto particolare. Nel Il catalogo, suo quinto libro di narrativa, un incredibile, picaresco Don Giovanni vaga per Sassari. Pagine che raccontano la banalità atroce di un legame profondissimo, in una storia che pulsa nell'incontro di due solitudini, di due sconfitte, di due tacite infelicità. Una candida, bianca, soffice neve cade su Sassari , come in tantissime altre pagine, alla fine di questa storia: una speranza di perdono, una possibilità di riscatto, una pace inaspettata. La neve leviga e accarezza i personaggi di Mannuzzu, forse li consola nella solitudine malinconica che li accompagna, nella tragedia che li divora.

Dottore, perché questa neve? ''Ha ragione, é stato bravo ad accorgersene: amo immensamente la neve, é un amore infantile, viscerale. La neve porta una cambiamento nelle cose immediato, palpabile.

La neve perciò é catarsi, palingenesi del mondo? No, mi secca, quasi senza accorgersene, é bellezza. Niente arzigogoli strani, arriva al punto. La vecchiaia sembra avergli donato un particolare senso della sintesi, come quando mi guarda e dice: sa il punto é voler bene, ma non a uno in particolare nella vita, a tutti, di chiunque si tratti, qualunque cosa abbia commesso, amare la vita: Pigliaru era così. Più che una curiosità, la curiosità è troppo poco, troppo misera: un’attenzione alla vita, questo fa la differenza. Ma ogni tanto la vita tradisce, come lei racconta. E spesso, invece ,ancora più serafico questa volta, la tradiamo noi.'' Snuff o l'arte di morire, ultimo libro di Salvatore Mannuzzu, è la confessione di un uomo, il ripercorrere la retta spezzata del tempo, nell'inutile tentativo di mettere ordine. È un correre verso la morte e allontanarsi, consci che l'ultima parola la può mettere lei sola. Il vento ulula nell'altipiano di Gioscari, lì dal pendio dove si gettarono fratello e la donna di Piero, protagonista del libro. Piero osserva da quella altezza vertiginosa la storia,senza fondo, della sua esistenza. Dio, se c’è, è questo amore a perdere, mormora Piero prima che il vento porti lontano le sue parole. La parola snuff -dal verbo to snuff: spegnere,smoccolare- si insinua dalla prima riga del libro fino alla tragedia elisabettiana che queste pagine raccontano . Snuff indica appunto, tutt'oggi, il peggiore materiale pornografico esistente: la violenza sui corpi che termina con la morte della vittima. Se, come dice Mannuzzu, la morte è un suo problema -non solo suo, sottolineerei- il sesso, la promiscuità carnale occupa almeno altrettanto spazio. I corpi, spesso dannati, dei libri di Mannuzzu si avvinghiano, si stritolano in un'unione che cerca di superare ogni separatezza, non sciogliendone alcuna. In questo Laocoonte senza fine, i poveri corpi dei libri di Mannuzzu precipitano spesso in unioni clandestine, adulterine. Prostitute, omosessualità latente, pedopornografia fino all'incesto sono i risvolti scuri che, spesso, vengono narrati dalle sue storie.

Il sesso sembra offrire una chiave di lettura, uno spiraglio di verità sui personaggi, la testimonianza ultima di un inconscio mai pacificato. ''Io non direi sesso. Direi piuttosto eros, anche se quando si dice storie erotiche, si pensa a libri pornografici. Il sesso è, banalmente, un tabù. Impossibile non incapparci e quei peccati, se così vogliamo chiamarli, è il mio modo di narrare, fa parte della mia verità, fuoriesce dalla mia penna. L’eros è il campo dei malintesi, di ciò che non si capisce, dove più si sbaglia e dove più siamo nudi. E' la materia della vera conoscenza. Niente come l' eros morde e mette in gioco tutta l'anima. E' la strada più rapida per occuparsi di verità, la più rapida che io conosca.''

Snuff o l arte di morire11608 1Dottore, i suoi personaggi si affannano a cercare una verità che a volte sembra inafferrabile e sempre più lontana ogni volta che si muove un passo verso di lei. Si potrebbe addirittura dire che lei è un autore post-moderno, che parla dell'insicurezza ontologica -come l'ha denominata Brian McHale- della sua epoca, del XX secolo, già chiamato da molti, il secolo dell'inquietudine. ''A me personalmente il termine post-modernismo non piace, né lo applicherei alla mia opera e meno che mai a me stesso. Una verità esiste, una cosa da conoscere c'è, inarrivabile nella sua totalità, ma ci si dona, ci si regala per barlumi, pezzettini, in minuscole schiarite. Ora mi guarda, si infiamma sulla poltrona di pelle -entrata anch'essa nei suoi libri-, alza la voce. Da un punto dell' universo si può arrivare da qualsiasi altra parte. Il punto é che per narrare questo contenuto -che c'é- ci vuole uno strumento adatto e la letteratura, da disciplina generalistica qual'é, narra la vita tutta. Ma non illudiamoci: é un opera faticosa, difficile, la riuscita é sempre incerta: lo strumento sempre perfezionabile, sempre da perfezionare. Non la raggiungiamo mai fino in fondo, ma ne afferiamo un'ombra, un pezzo. C'era una trottolina sarda- su barrallicu- che funzionava come un dado da gioco: ha sei facce e sei rispettive scritte. Tottu -tutto- é impresso alla sinistra in grandi lettere, nudda -nulla- dalla parte opposta poi sopra troneggia la scritta pagu -poco-, meda -molto- sotto, parola troppo inflazionata, infine mesu -metá- e l'ultima, l'ultima non la ricordo. Ci sto pensando da giorni, ma non l' afferro. Ecco, se vuoi tottu hai nudda. Pagu, pagu é l'unica faccia che sta in piedi davvero, é l'eterna approssimazione umana, il logorio di una vita . '' È strano dover andare via -mi avverte chiaramente che all'una deve lasciarmi-, come tutte le discussioni iniziate intensamente, si ha sempre l’impressione che possano continuare per millenni, all’ombra di un platano o anche nel suo piccolo studio, mentre lui sprofonda sempre più nella poltrona in pelle, così più grande di lui. Ma niente da fare, l'eternità, se c'é, non é questione di questa mattina. Mentre mi saluta, aggiusta un piccolo cartoncino colorato, borbottando qualcosa contro la colf, come si usa oggi dire; allora é davvero pignolo come scrive.

Mentre esco dal cancello, con ancora qualche interrogativo sulla punta della lingua, mi sovvengo delle sue parole, una sua poesia, come un pungolo troppo doloroso per poterlo evitare.

Certo,dannati.
E`la quaestio, anche
se nulla riesce definitivo a questo grado
o la fine é proprio questa, il non agire
lo scarso senso del reagire,
la spes ultima dea.

Questi versi ora più che mai suonano suoi, rimbombano in me fino a smuovere i precordi, lasciandomi smarrito. Tutte quelle pagine, centinaia di versi, gli scritti giuridici, l’infinita pila dei fascicoli, gli interventi alla camera, le città che più ha visitato, solcato, raccontato: Sassari, Roma e San Francisco. Quella parte di mondo in cui ha lasciato qualcosa chissà in quale forma, chissà dove e chissà per quanto, l'amaro caustico dei suoi libri: sangue e soda da buttare giù tutto di un fiato, senza fermarsi. La coerenza, la caparbietà politica, sempre a sinistra, con tutti i benefici di inventario del caso, la sua Isola per cui nutre un amore palpabile, in cui crede e ha fede: fedele e mai fideista. L’odio per l'imprecisione, per la generalizzazione, per le petizioni di principio(mai sardista, sempre sardo), pur conscio dell'approssimazione ultima, definitiva, parte irrinunciabile della verità: la vera dannazione, la dannazione dell'approssimazione dell'esistenza. Eppure se chiudo gli occhi, se premo le palpebre, mi sembra proprio di vederlo di spalle, mentre si inerpica per viale Caprera con il suo solito ombrello e con il suo inverno alle spalle, con una musica lenta e malinconica e un basso, lento, lontano rumore di tamburo. Il Don Giovanni sta per cominciare. È vero, sa? Vorrei corrergli dietro e urlalargli : è proprio vero. È tutto un amore perdere su questa terra, ma è davvero possibile riuscire a perdere? L’eco della mia voce rimbomba nella via. Apro gli occhi, viale Caprera davanti a me, il campanello luccica al sole. Sono ancora davanti a casa sua, mi è sembrato di fare chilometri, ma non mi sono mosso di un millimetro. Forse, lui è ancora nel suo studio. Suono, mi piacerebbe avere una risposta.

I libri di queste parole

# Procedura, Einaudi 1988,2001,2015. Ha avuto diverse ristampe, vinto il primo Viareggio, ristampata per la Utet in Collezione Premio Strega: "I cento capolavori". Da ''Procedura'' il film liberamente tratto ''Un delitto impossibile'' di Antonello Grimaldi, con Carlo Cecchi, Silvio Muccino, musiche di Luigi Einaudi.

# Catalogo, Einaudi 2000. Ormai introvabile in libreria, fate di tutto per rintracciarlo. Una deviazione di percorso della fantasia, ironia e misercordia, per un Don Giovanni finalmente umano.

#Snuff o l’arte di morire, Einaudi 2013. Suo ultimo libro, titolo e cronologia sembrano mettere la parola fine.

La poesia di queste parole

#Corpus, Einaudi 1997, 2010. ''Certo dannati'' si trova nella sezione Extra Strong, III ''La collera imperfetta".

mannuzzudisbis 

 

 

Pubblicato: Lunedì, 23 Novembre 2015 19:34

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