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Notizie

L’agonia a circuito chiuso

87oreLa Lettura, 22-11-2015

di Maurizio Porro

Nel 2009 nove videocamere di sorveglianza hanno ripresola fine di un nonio sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio. La regista Quatriglio ha montato le immagini: ora sono un film

Quando Norma Desmond, diva divina del muto, scende dalle scale bersagliata dai flash e avvolta nel fumo del suo bocchino alla fine di Viale del tramonto di Billy Wilder, dice che lei è rimasta grande ed è il cinema ad essere diventato piccolo. Ma non pensava così piccolo. Piccolo come il fotogramma, il frame di una delle nove videocamere di sorveglianza del reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania che ha ripreso coi modi disumani, acritici, indifferenti di una macchina gli ultimi cinque giorni di vita sempre più vegetale di un uomo perbene, Francesco Mastrogiovanni, prelevato da una spiaggia camping del Cilento il 31 luglio 2009 (la sera prima aveva guidato troppo veloce) e sottoposto a Tso (Trattamento sanitario obbligatorio): muore il 4 agosto per edema polmonare acuto. È il finale di partita di un balletto cinico e clinico di 6 medici e 12 in¬fermieri che in tribunale si palleggeranno le responsabilità, dicendo i secondi che eseguivano solo gli ordini, vecchia storia che fa venire in mente La banalità del male della Arendt: nessuno chiede di interrompere il meccanismo. Un mondo a circuito chiuso: la sconvolgente sfida di 87 ore, il film della regista Costanza Quatriglio, palermitana classe 1973, abituata a stare e a farci stare col fiato sospeso, era spiegare una morte assurda e tramutare la videoregistrazione a scatti, meccanica, col salto del fotogramma dell’'uomo legato al letto (particolare non citato nella cartella clinica), in materia narrativa. Un caso, purtroppo non isolato (recente episodio a Torino), che ha acceso le cellule vive e civili dell'Associazione «A buon diritto» di Luigi Manconi che, dopo un libro ("Quando hanno aperto la cella" scritto dallo stesso Manconi e Valentina Calderone, 2011), ha passato la palla alla regista che ha raccolto la sfida. «Grande e faticosa: come rendere quel materiale inserito bulimicamente nel mare magnum delle immagini passive della sorveglianza in qualcosa di vivo?».

Macchina fissa, cinema verità, tema che riguarda l'essenza del cinema e il suo linguaggio, su cui potrebbero fare una tavola rotonda i pionieri Méliès e i Lumière, sconvolti a vedere che oggi un film si fa anche con il telefonino. Il cinema è l'arte del vedere e deve essere affidato a chi non ha niente da nascondere: viene in mente il cine-verità dei russi, Dziga Vertov, la nouvelle vague di Rouch o Andy Warhol che piazzava la cinepresa davanti a qualcosa o qualcuno di immobile, un grattacielo di New York o un uomo addormentato, e la lasciava lì a ronzare per ore, come quelli che alla sera, fidandosi del paranormale, mettono un foglio e una penna su un tavolo sperando che al mattino ci sia un messaggino dall'aldilà.

Il film di Costanza Quatriglio il messaggio lo lascia ma viene dall'aldiquà. Tanto che il Tribunale di Vallo della Lucania il 30 ottobre 2012, chiudendo il primo grado del processo, ha condannato 5 medici per sequestro di persona e dal 15 marzo 2015 è in corso l'appello. Alcuni dei fotogrammi visionati anche in tribunale hanno iniziato a circolare poi nel 2012 sul sito dell'«Espresso», quindi in streaming.

La domanda è d'attualità, perché il mondo intero è videosorvegliato oggi più di ieri e meno di domani. Che cos'accade di questo infinito, anonimo, inerte materiale? L'inquadratura e la contenzione meccanica è come se fossero due volti dello stesso strumento di tortura. «La scommessa — dice l'autrice a "la Lettura" — era trovare un linguaggio, scovare una drammaturgia nascosta in quelle immagini respingenti che sembrano ma non sono tutte eguali. Mi sono posta di fronte al mondo intero, dovevo trovare una chiave di accesso e un punto di vi sta: filmare la disumanità è stato disumano, come condannare il signor Mastrogiovanni, nato nel '51 a Castelnuovo Cilento, maestro elementare amatissimo dai bambini, alla privazione della propria soggettività». Perché tanto accanimento? La regista è convinta che un buon ruolo l'ha giocato il caso ma, dopo una giovinezza in cui fischiettava spesso Addio Lugano bella, quindi bollato come anarchico, Francesco nel '72 è coinvolto e ferito in una rissa con i fascisti. Poi «espatria» a Bergamo dove vive 15 anni di serenità prima di tornare nel '99 al Sud; ancora problemi e tre volte è sottoposto al trattamento sanitario.

Oggi la Quatriglio gira un film che non si giudica con le stellette ma con la forza della novità, riguarda la reificazione dei corpi, porta al parossismo delle immagini riprese in automatico unendo alla fine 9 cineprese la cui intermittenza col fotogramma mancante dà tempo supplementare per riflettere. «Il film è diviso in 5 giorni e 5 atti come una tragedia con prologo ed epilogo. Un materiale gigantesco che meritava anche un profondo rispetto umano perché vedia¬mo un uomo vivo che prima si regge sulle sue gambe e poi ne perde sempre di più l’uso, entra in stato letargico, finché arriva la voce fuori campo della nipote Grazia Serra, rappresentante e vestale della famiglia. Bisognava elaborare ciò che la videocamera ma non l'occhio umano aveva visto senza poter svelare il passaggio di causa-effetto. Il monitor non sente la richiesta di aiuto, la fame di aria, il bisogno di respirare come un pesce fuor d'acqua: Mastrogiovanni morì per annegamento interno tornando così all'elemento primordiale».

Come e quanto un documento pubblico di denuncia (si vedono anche altri pazienti non riconoscibili) può diventare racconto? «Oggi le camere di sorveglianza sono il nuovo punto di vista sul mondo e ci spiegano come in questo non-luogo viene esercitato il potere sul corpo umano. È un immaginario dell'orrore contemporaneo: mentre massacri e decapitazioni vengono da lontano, questo materiale viene dalla stanza di un ospedale e su quelle immagini che prese da sole hanno valore probatorio io dovevo costruire una drammaturgia scovando l'invisibile. È il vero compito del cinema che deve assumersi un punto di vista e mostrare le relazioni tra esseri umani, tanto che alla fine chi ci dice come è morto l'uomo non è un video robot, ma un medico legale che guarda il corpo portato finalmente fuori dal raggio visivo meccanico: non sappiamo il momento in cui è spirato. Soltanto un modo diverso di guardare può interrompere la catena dello sguardo organico al potere. Ma che fatica. Il mio personale occhio di autrice ha lavorato a lungo ma con pause, in apnea, osservando le immagini: il discorso sul tempo solo un essere umano lo può fare».

 

 

Pubblicato: Lunedì, 23 Novembre 2015 17:18

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