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87 Ore: il cinema foucaultiano di Costanza Quatriglio

-ovvero il cinema come forma di veridizione sul crimine biopolitico-

you-ng.it, 10-11-2015

di David Colantoni

Non conosco abbastanza dettagliatamente l’orizzonte cinematografico nazionale per poter fare delle affermazioni scientifiche sulla unicità di questo approccio estetico nell’ambito del cinema italiano. Non sono un ricercatore in questo campo. Scrivo perciò dalla mia posizione di spettatore comune al quale vedere un lavoro di questo genere sullo schermo cinematografico sembra una cosa assolutamente fuori dall’ordinario, e al quale questa visione ha prodotto un deciso movimento della riflessione .

Parliamo  dell’opera di Costanza Quatriglio “87 ore” presentata pubblicamente in anteprima nazionale martedi 6 novembre al cinema teatro Palladium nell’ambito del Festival Arcipelago, e che sarà distribuito nelle sale di Roma e Milano ( ..nell’Italia dei 1000 comuni…) a partire dal 23 novembre. Anagraficamente un documentario, ma le cui implicazioni, in quanto opera presente nel proprio presente politico, si irradiano anche in altri ambiti diversi dal mero documentare, e primo tra tutti quello di essere l’arte, come scrive Adorno, “antitesi sociale alla società stessa”.

locandina87

Uno dei moventi più importanti  del film è infatti il desiderio di denunciare un omicidio biopolitico, un crimine di Stato, attraverso il linguaggio dell’arte. Le condizioni di possibilità e anche la necessità, direi, della sua realizzazione , ovvero il Kairos platonico, invece un reperto, il possesso di un videodocumento: Italia del 21° secolo: Il fatto ci proietta nel regno assurdo ultrakafkiano e orwelliano insieme di una “esecuzione capitale” per incaprettamento eseguito dentro a un reparto psichiatrico da membri del SSN, la cui sigla ora può anche farci una qualche paura, o quanto meno ricordarci che certe macchine organizzative in cui si prende possesso della vita altrui, che può anche essere sempre la nostra, possono deviare trasformandosi, alla minima anomalia di coscienza dei suoi addetti, in macchine di tortura e morte, e il cui eidos, purtroppo immortale, è l’universo concentrazionario realizzato dai regni del male nel 900. Le condizioni di possibilità dell’ingaggio dell’arte  in questa storia sono dunque le 87 ore, tre giorni e mezzo, di video ininterrotto delle telecamere di video sorveglianza del reparto miracolosamente scampate alla distruzione, cosa che avrebbe cancellato per sempre le tracce del crimine: la prassi prevede infatti che le registrazioni vengano distrutte dopo una settimana (de facto una proscrizione preventiva di possibili crimini come questi, i quali dopo una settimana non è più possibile eventualmente indagare) video che mostrano la condanna  e l’esecuzione di un prigioniero, la sua agonia legato mani e piedi a una branda senza acqua durata tre giorni e tre notti infine la morte tra atroci spasmi nell’indifferenza sadica dell’intero personale del reparto stesso, e ciò avviene nella Nazione di Cesare Beccaria, in uno Stato in cui la pena di morte non esiste nemmeno per i mostri pluriomicidi della mafia, figuriamoci per un paziente psichiatrico bisogno di cure e protezione, persona che forse non era nemmeno nelle condizioni di essere sottoposto a un TSO. Esecuzione raccapricciante che farebbe inferocire l’opinione pubblica mondiale se la vedessimo compiuta, per esempio, su un prigioniero di guerra violando le convenzioni di Ginevra, e che ci fa riandare allo scandalo che ha travolto l’amministrazione U.S.A quando sono usciti fuori i metodi di Abu Graib e Guantanamo (e sulla questione non possiamo non citare il documentario Taxi to the Dark Side diretto da Alex Gibney e premio Oscar 2008 come miglior documentario, di cui consiglio vivamente la visione).

87 ore è la vicenda di un uomo, il maestro elementare Francesco Mastrogiovanni, strappato dalla vita da un evento anomalo della cui storia personale dal documentario sappiamo ben poco  (cosa  he ci allerta sul fatto che ci troviamo davanti ad un documentario “anomalo”) ma sul cui omicidio invece siamo tutti a conoscenza, perché assurto a suo tempo alle cronache nazionali, visto e rivisto nella televisioni e diffuso nel ciclo continuo dell’industria massmediatica della cronaca, nell’immenso flusso di informazioni a getto continuo che anamorfizzano la struttura del tempo distorcendola in una specie di assurdo loop al quale finiamo per guardare in stato di semi ipnosi, senza percepire il vero senso delle cose.

Ora quando una cosa è già di pubblico dominio, prima dell’operazione documentaristica stessa, quando non è il documentario a portare nella sfera pubblica il fatto ma attinge dalla sfera pubblica il fatto stesso, quella che si compie su di esso è una operazione che al tempo stesso documenta  il reale ma soprattutto lavora sul linguaggio, sui codici e diventa processo formale, e infine opera, giudizio estetico e in ultima istanza giudizio di verità. Poiché  il dominio pubblico di un evento, inscrive la “copia conforme”  del fatto nel registro del simbolico, lavorare documentaristicamente sui reperti di cronaca è dunque anche lavoro formale sul linguaggio e filosofico sulla lingua, in questo caso sulla lingua della realtà che parla il linguaggio cinematografico, lavoro che si allontana dalla operazione di referto in maniera assoluta pur conservando, come una membrana cellulare semipermeabilie, che da una parte ferma e da una parte lascia passare, quello stesso aspetto specializzato su una delle sue  facce. Ed è necessario affermare, a mio avviso, che reale e vero sono due cose diverse, e che reale è una qualsiasi ricognizione visiva o sonora mentre vero o non vero è solo il giudizio umano sul senso e il valore del contenuto di quella ricognizione. È l’affermazione umana sola che decreta verità o non verità. È il dire in relazione al concreto che genera il campo della verità e quindi solo legislatore della verità è l’umano mai il meccanico e nemmeno  l’elettronico- tecnologico, sebbene il secondo mimeticamente più vicino  a riprodurre i processi dell’umano. Mai al meccanico-tecnologico-elettronico  possiamo quindi pensare di delegare di informarci sul vero o sul non vero, abbandonando lo scranno del giudizio umano a delle macchine che anche se capaci di sentire non potranno mai assumersi la responsabilità di essere giudicanti, concetto questo cruciale nell’impianto epistemologico di 87 ore, già ponendo in ciò i temi foucaultiani della veridizione, dove ci apre il campo di indagine del rapporto degli uomini con la verità: nella dialettica tragicamente non avvenuta, tra lo sguardo umano e il video ( indicativo presente del verbo vedere in latino) che appunto contempla necessariamente un soggetto umano, un ego video, senza il quale ciò che l’obiettivo elettronico ha registrato non esiste, e che il film 87ore invece istituisce in quanto problema del guardare, facendoci percepire, ad esempio, scendendo nei vari sguardi, il non avvenuto dialogo tra il guardare umano e le immagini dei monitor in cui si consumava il tragico evento. Delega totale all’occhio elettronico di fare ciò che solo l’uomo poteva fare, determinare la verità da quelle immagini  di una morte in atto di compiersi, come omicidio,  e che doveva essere impedita che  è assolutamente un crimine e una aggravante del crimine e mai una giustificazione.

87 ore ci mostra poeticamente, una poetica certamente tragica, la “summa teologica”  delle immagini ininterrotte dei quasi quattro giorni filmati dalle telecamere di sicurezza del reparto della agonia atroce di questo uomo di 58 anni corpulento ma mite, sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio, amato maestro di scuola elementare catturato dentro al mare dove si era fermato dopo una caccia all’uomo scatenatasi nel piccolo Comune di San Mauro del Cilento dalla relazione forse maniacalmente zelante di “qualcuno” che aveva allertato le forze dell’ordine dichiarando che l’uomo era entrato di notte con la macchina in aerea pedonale guidando con lo sguardo assente, (come avrà visto mai quegli occhi con i fari puntati addosso resta un mistero) come raccontano le  voci fuori campo davanti a questa spiaggia in principio di film, mare che è qui una pulchritudo terribilis e hostis humani generis; limes invalicabile alla vittima umana per sfuggire a questa caccia. Mare dalla poetica apparenza ma sotto la cui semovente superfice vi è per l’uomo il fatale. l’irresistibile terribile ibseniano della “donna del mare”: la liquida morte.

Il film è il momento estetico, anche, di una movimento civile costituitosi in cerca di giustizia e verità per questo atroce delitto, insieme al comitato per la verità costituito dai parenti della vittima e con il senatore  Luigi Manconi (che firma anche il soggetto insieme a Valentina Calderone e alla Quatriglio stessa) e il supporto dell’associazione “A buon diritto”, e dunque è arte e non arte, è film e atto civile e ci riporta a considerare la importante relazione dell’arte con ciò che arte non è decisamente più complessa del significato generico di arte come di oggetto di godimento e intrattenimento che vige nel circuito quasi totalitario del sistema dell’industria culturale.

La sua realizzazione e soprattutto la sua distribuzione nel circuito ufficiale del cinema sembrano anomalia o miracolo. Disfunzione, momentaneo black out del sistema immunitario della società dello spettacolo e non sappiamo se rendere onore ai produttori perché consapevoli mecenati rinascimentali o riderne perché medioevali mugnai fatti becchi dalla metis del regista.

Durante la sequenza di apertura del film del mare, dal punto di vista quasi di un ossimorico futuro remoto che si sogna presente, ecco queste voci senza corpi,  evanescenti come spiriti  senza requie, che raccontano all’ignaro contemplatore, dal cui ipotetico sguardo noi contempliamo la bellezza del lido, della tragedia proprio li iniziata, e che uniche ricordano e conservano l’orma mnemonica delle orme fisiche su quella sabbia di quei fatti per sempre cancellate dalle maree. Sono i congiunti dell’assassinato, e tra di essi le donne soprattutto. Come Erinni assetate di giustizia per il terribile delitto inferto alla loro carne. Solo le donne possono completamente e legittimamente rivendicare come propria la carne di vittime altre da se stesse, in quanto è dai loro corpi che nasce tutta intera l’umanità terrena e anche gli dei. Sono le madri, le figlie, le sorelle, le nipoti, come Grazia Serra, sua nipote, principale voce narrante del film, le antigoni di sempre.

Ed ecco che sullo schermo di un cinema, dove l’industria culturale ormai ci fa entrare integrandoci come parti assemblate della macchina spettacolare persino fornendoci di speciali occhiali per vedere non più l’altissima definizione ma addirittura la tridimensionalità nello schermo, inizia la proiezione del materiale a bassissima risoluzione delle telecamere di sorveglianza del centro di salute mentale dell’ospedale San Luca, a Vallo della Lucania., immagini in cui vediamo l’arrivo di Francesco Mastrogiovanni, appena dopo la cattura. I pixel minimi delle immagini diventano ingigantiti dalla ampiezza di uno schermo cinematografico, espressione visibile dell’inumano, tradiscono il dominio ormai imperiale del medium che si fa scopo, cosa che solitamente ci sfugge perché mai visibile come oggetto della riflessione dell’arte. Eppure rifletto, non è forse proprio questo l’alta definizione, una infezione totale di queste entità, il grumoso e denso rumore elettronico dell’assenza saturante e non il cristallo d’argento fecondato dalla luce? e che mi svelano, viste cosi giganti, la loro carica tanatologica.

Io, consumatore di immagini anche insignificanti, purché siano sublimi nella loro maniera iperreale ad alta definizione, io sempre in difetto nel possesso feticistico dell’ultimo schermo a risoluzioni sempre più esasperate dalla evoluzione incessante e geometrica dei minimi requisiti di sistema audiovisivo prodotti dall’industria, ipostatizzazione tecnologica del mito del progresso infinito, provo un odio da membro di partito unico orwelliano verso l’offesa ideologica, verso la lesa maestà  dell’alta definizione che è ormai divenuta concetto politico, credo, fine e mezzo, corpo e spirito.  Mi sento minacciato e terrorizzato da questo spettacolo della visibilità organica quasi dei pixel, eretica cospirazione contro la deità delle perfette immagini nel cui regno sono disciolto. Insorgo. Scollo lo sguardo dallo schermo a guardare alla mia sinistra la platea stracolma del cinema teatro Palladium  per vedere come stanno reagendo i miei fratelli di partito feticistico spettacolare rispetto a questo violento attacco al decoro oculare e al credo dell’alta definizione che questa opera sta portando davanti ai nostri occhi offesi. Ma i miei fratelli di partito sono silenziosamente immobili incollati alle immagini. Sospesi, attoniti  come  davanti allo sconvolgente evento del crollo di una quinta scenica creduta fino a quel momento realtà, come  facciate di città finte in un gigantesco set felliniano.

Mi sento  colto come in una imboscata. Io, Consumatore di cronache feroci, degustatore di omicidi a non meno di 1080 pixel a colazione a pranzo e a cena, di abusi, violenze, di morte condita in tutte le salse, secondo un ferreo canone imperniato sulla mia artefatta e inculcata morbosa attrazione verso la morte e la tragedia altrui, purché vista nel credo dell’alta definizione e non per trarne emozioni, ma al contrario per mantenere stabile il mio torpore sociale, per mantenere il mio distacco sempre vivido da ogni cosa viva.

Ero venuto a cercare la mia dose, a sedarmi in una specie di “Costanzo show”, così pensavo inconsciamente, a godermi, riparato dalla altezza dello spettacolo il sublime della tempesta di un crimine che aveva spazzato via una vita umana e  dove mi sarebbero state raccontate tutte quelle morbose particolarità dell’altro, di quell’altro cosi acutamente caratterizzato da non potermi mai calzare addosso. E ora mi trovavo davanti a immagini clamorosamente sovversive, disperate. Immagini che come i replicanti di Blade runner, i falsi veri nel mondo dei veri falsi,  avevano fatto irruzione  nel mondo loro interdetto della società dello spettacolo integrale e sentivo queste visioni sovversive di 87ore, cercare nella mia ragione, come quei replicanti più umani degli umani nel mondo terreno loro interdetto, la chiave genetica per non morirne, di quel mondo, troppo presto e braccate dalle unità poliziesche del disagio interiore di una sensibilità conformata a recepire la violenza e la morte come mattoni per costruzione del bello estetico dello spettacolo.

Quando andiamo a cinema o a teatro nella nostra epoca noi compiamo un atto che né inizia né finisce nel cinema stesso. Non ci sono più spazi veramente separati , anche se realmente lo sono da muri e distanze,  ma è non vera separazione in quanto in questi spazi vuoti sono gettate strutture  di collegamento che si potevano solo immaginare appartenere al regno del magico fino a cento anni fa, che ci fanno vedere prima del tempo dell’accadimento cosa andremo ad assistere. Il prodotto viene preannunciato dalle pubblicità, dalle presentazioni e dai trailer che ce ne offrono brani e ideologizzano il modo in cui lo andremo a vedere, cosa questa da cui ormai non si sfugge come dimostra questo stesso rapporto da me redatto.

Anche io da questa ideologizzazione, poiché la storia di quell’uomo assassinato era stata momento di questa catena di montaggio della produzione del consenso al presente, nella cronaca nazionale,  ero infatti stato tradito e quindi  preparato ad aspettarmi tutt’altro. Qui, come uno stratega che ha studiato  il territorio, il regista sapeva dove mi avrebbe colto indifeso. Assetato di particolari quanto più insignificanti possibili, eccitato    dalle narrazioni  rotocalchistiche su come si era svolta la caccia, su quanta resistenza avesse opposto l’uomo, sulla suspance vissuta dell’intero paese, sulle interviste ai vicini per cercare di carpire quell’indizio giustificatorio al destino tragico dell’uomo –nel dominio i dominati pensano sempre che in fondo meritano il proprio  destino, cosi come le tecnologie del sé li istigano a fare- che appunto sapevo ben prima di vedere 87ore  essere morto legato in un centro mentale, -mi ricordai vagamente mentre vedevo il film del momento in cui in dalla televisione di  un qualche bar di sfuggita  anni prima avevo visto alcune di quelle immagini di cronaca come cose di un altro mondo, come provenire dall‘al’di là del vetro di un acquario ..già..  un acquario.. dove un pesce boccheggiante stava morendo agonizzante davanti al mio bere un caffè.- sulle confessioni degli aguzzini in cui ravvisare l’indizio invece dell’umanità a cui può accadere di uccidere e persino di seviziare uccidendo: ecco,  a questa solita orgia spettacolare del lato infero dell’umanità ero venuto, ligio membro del partito dell’alta definizione e dello spettacolo, ad assistere.

Ma il segnale della continuità semantica del governo delle immagini docili (si docili, anche se di contenuto truculento,  sono infatti  le immagini nella loro serafica pelle dell’altissima definizione, del perfetto contrasto, della brillantezza irreale dei colori, ovvero docili sono  tutte quelle immagini il cui soggetto sia innanzitutto la qualità tecnologica della propria stessa sostanza e assolutamente accidentale invece ciò che tramite questa sostanza illustrano agli  occhi indottrinati del pubblico spettacolare) immagini  assolutorie di tutto ciò che mostrano in virtù della deità della loro perfezione di cui deve  imperativamente essere composta la tessitura del mondo spettacolarizzato, o nostro locus di ibernazione, lido dei lotofagi a cui torniamo  dall’esistenza produttiva cui siamo assegnati, e in cui dobbiamo essere sospesi da ogni rischio di cominciamento di dubbio e pensiero fino a nuovo impiego: quel  segnale sembrava essersi interrotto fuori dalle mura della sala cinematografica che ora era divenuta pericolosa periferia non coperta da imperiale tecnologia  antialiasing. Cosa stava succedendo in questa sala- caverna platonica sulle cui pareti vedevamo le terribili ombre della verità? Eravamo stati isolati da un attentato artistico  che aveva  tagliato tutte le comunicazioni con il visibile vigente. Immediata mostruosa sensazione di lievito del concreto, fetore orribile di verità, puzzo di pensiero, e, insieme, osceno tanfo d’arte. Panico.

Il terribile uomo, braccato dal sistema fino alla cattura, era ora ripreso, poco prima di essere incaprettato alla struttura di metallo del letto,  in un violento rumore elettronico di fondo in cui i giganteschi pixel sembravano il minaccioso metabolismo esponenzialmente riproducentesi di una colonia di batteri, docilmente seguire gli infermieri senza bisogno alcuno di coercizione in questa squallida e atroce  stanza dal pavimento ossessivamente lucido, dove immobile come un enigma di pietra giaceva il corpo di altro paziente, un grasso budda esausto e sedato, riverso sul ventre, gli arti arresi slanciati sopra la testa totalmente insensibile alle urla agonizzanti dell’uomo incaprettato ma con una qualche chimica ragione rispetto alla stessa inumana indifferenza dei sanitari, e della cui presenza mi accorgevo lentamente come di un astro senza vita lentamente albeggiante  dal cielo rumoroso degli elettroni. Maledetto regista, pensai,  rendendomi complice del suo attentato mi stava facendo vedere dentro un cinema ciò che tutta al più potevo consumare pornovoyeuristicamente dentro casa dal piccolo rettangolo di you tube, era, tutto ciò, una illegale e terroristica  decodifica delle sfere congrue di visione di cui il sistema si sarebbe ben presto reso conto risolvendo l’anomalia, riportando ordine! Io, incollato alla dissipazione tossica del tempo della mia esistenza, di cui perfettamente cosciente, ma come dalla paralizzante visione di un incubo,  non riesco a impedire  l’avvio automatico  ormai quotidiano e sempre più reiterato della abulica visualizzazione degli schermi:  potevo consumare, si, anche queste immagini non perfette, ma come parte oscena e organica, come residuo animale nello sterilizzato regno dell’alta definizione tecnologica delle immagini,  queste maternità deformi della pur sempre materia spettacolare, queste immagini non conformi al vigente (rispetto al canone della ultradefinita irrealtà) e quindi relegate nei corridoi infinitamente ricomincianti della rete e consumare insieme a ciò qualsiasi luminescenza palpabile dagli schermi con cui sono compenetrato ormai in qualsiasi istante. A cui sono legato come un divorato prometeo prigioniero alla precipite roccia. Ma per carità non in un cinema, non chiamando ciò un film, non con me, ineccepibile membro del partito feticistico spettacolare: ciò significava che  mi trovavo coinvolto in  un attentato alla felicità distopica del monopolio della realtà visibile da parte dei proprietari dei mezzi tecnologici per la produzione della ultradefinita irrealtà cui ho da tempo dato tutti i consensi possibili. Mi stavo macchiando guardando 87ore   di un qualche reato di cui non capivo fino in fondo la sostanza?  soprattutto qui dentro un cinema insieme ai miei fratelli spettatori spettacolari in un tempio dell’immagine-bella-di-per-se che poteva usare le immagini di morte e dolore come materia svuotata del suo vero senso per costruire il contenuto unico dello spettacolo della potenza tecnologia dei demiurghi dell’immagine, così come Tamerlano aveva nella notte dei tempi usato teschi umani  per edificare le mura della città?  Essere posto di fronte a qualcosa di ammissibile solo in privato, la superficie butterata orribilis delle sub-immagini delle videocamere di sorveglianza di un reparto psichiatrico proiettate in cinema… Ma cosa sto facendo? Cosa sta succedendo? Ero stato svegliato.  E adesso cercavo di comprendere dove mi trovassi perché e cosa stava avvenendo, cosa significavano le immagini, quelle immagini, cosa mi stavano comunicando. Pensavo grondante di ansia , con una sensazione di pericolo imminente, tutte queste cose, come il pensiero fosse una febbre scatenata da questa infezione. Pensavo, soprattutto, stavo pensando.  Nell’atto solito di vedere invece  nemmeno percependo il mio essere. Vedevo una brutta morte attraverso brutte immagini, reato punibile con la vaporizzazione supposi, nel tempio spettacolare  in cui la morte e la violenza sono la materia di base della intrinseca bellezza delle immagini, vedevo gli altri vedere questa cosa e gli altri vedevano me vederla. Forse all’uscita saremmo stati deportati da unità spettacolari di reset sociale per aver visto coincidere la morte con la bruttezza delle immagini deliberatamente mostrate come atto di volontà artistica.  Forse,  ebbi a meditare, la regista era stata di fatto già vaporizzata e stavano già falsificando le edizioni dei giornali in cui  precedentemente si era parlato di lei.

Il terribile  psico sovversivo –vi rimando certamente a googlare 87ore per fare indigestione di succulenti particolari sulla vita concreta dell’ammazzato che gettano sospetti e deliziose ambiguità a non finire sulla suo passato pare di anarchico, ah-ha ecco spuntare una logica dunque, e dunque se l’era cercata in fondo, ma non lo diciamo,   di cui è ricca la rete nelle vari articoli spettacolo-conformi interessati soprattutto a raccontarci la vittima o il mostro-vittima o la vittima mostro, che non a riflettere il film come forma di veridizione su un crimine biopolitico–  che era stato catturato in mezzo del mare come una informe creatura ctonica uscita dalle oscurità dell’ade, eccolo ora nel grande schermo del cinema, con il suo corpo camminare nel corridoio del reparto prima di essere legato. Calda temperatura della luce di alcuni  pixel che lo rappresentano. Per motivo di limite di  memorizzazione delle telecamere a circuito chiuso immagino, i frame del filmato sono scarsi, e , come fosse il buffering bizzoso di uno streaming, l’uomo va avanti e indietro  camminando a scatti nel corridoio del reparto in cui percepiamo accendersi o spegnersi luci e angolazioni delle ombre che variano  che ci indicano che fuori vi è un tempo, Oppure..ma certo.. intuisco subito dopo, proprio nel mentre vi assisto,  che è invece frutto voluto del montaggio cinematografico, ma si!, stupido che sono,  come la certosina ricostruzione archeologica da   centinaia di frammenti posizionati a ricomporre la forma di  una coppa funeraria trovata frantumata nella riesumazione di una tomba antica, che dalle molteplici ore di quel camminamento ha preso minuti pezzetti e li ha montati in modo tale che le frazioni animandosi in quel tal modo esprimano da quel corpo, destinato di li a poco all’esecuzione per incaprettamento, il Comico, mostrandocene  senza possibilità di resistervi il contenuto di pace e dolcezza,  corpo che va clownescamente  ( quale più folgorante anarchia certo di quella di un clown?) ciondolando , senza rancore, senza sferrare violenza nemmeno contro le cose, come ci si potrebbe aspettare di veder fare da dentro un simile incubo  contro i limiti imposti di quella prigionia letale, cammina invece con le movenze  di un Charlie Chaplin a cui hanno strappato bombetta e  bastone ma non l’andamento ironico, supremo stilema della arcaica arte della comicità , fino quasi a cadere ora su una gamba ora sull’altra, cui assomiglia clamorosamente il movimento poetizzato dal montaggio di questi innumerevoli frammenti, incredula ironia del gesto che vorrebbe illudersi, ma che sa che non avverrà mai, che da un momento all’altro venga terminata la macabra commedia di quella reclusione.

Vicina  al comico ciondolare rimpicciolendosi e ingrandendosi  nel suo avvicinarsi e nel suo allontanarsi dall’occhio bovino e ieratico della sfinge silicea della telecamera di sorveglianza, a cui fa da commento una struggente dolcissima colonna sonora quasi come di carillon e che a me richiama in mente quelle antiche tragicomiche in bianco e nero di Chaplin della sua infinita lotta, eroica perché combattuta contro la schiacciante superiorità di forza del potere,   del  potere istituito e contro il bigottismo conformista  capace di uccidere in qualsiasi momento per totale assenza di pensiero, quella sconcertante assenza di pensiero che Hannah Arendt identifica infine essere l’origine della capacità di fare il male assoluto da parte di bravi padri di famiglia come lo fu il signore dello sterminio Eichmann: di fronte a questa tenerezza comica dell’uomo, l’ombra proiettata sullo schermo della nostra coscienza del mostruoso in cui questo inerme è caduto prigioniero, è gigantesca e terrificante.

E questo è il vero che soltanto l’arte è in grado di giudicare dal freddo reale del reperto visivo tramite il battere in levare (arsis) del “giambo cinematografico” in cui è scritta la poetica del film documentario che non solo nella struttura dei cinque atti richiama la machina della tragedia greca. Dalle oltre 80 ore di filmato continuo di scene fondamentalmente tautologiche della contenzione, definizione asettica di incaprettamento e della rivolta senza speranza a questo incaprettamento umiliante innanzi tutto, crimine contro la dignità prima di ogni cosa, del corpo  dell’uomo incessantemente contorcentesi fino al segarsi sanguinoso degli arti, in una gallerie estenuante di maschere di dolore sfuggente alle parole (àrreton), una ribellione dolce ma continua,  implacabile, che fa di quella creatura una creatura eroica, –non era  del resto  forse legato li per il peccato originario di Prometeo? ovvero ucciso davanti all’occhio deumanizzante della tecnologia rubata agli Dei? è stato composto nella regia e nel montaggio un mosaico fatto di micro-movimenti apparentemente uguali ma dalle cui impercettibili differenze invece si genera un linguaggio di cui lo spettatore si impossessa come si impossesserebbe al buio delle minime luminescenze e che si stabilizza come fievole ma cruciale sguardo,  inesorabilmente risvegliandoci dimenticate duttilità mentali al comprendere, all’immaginare, all’agnire, anche al godere di una bellezza più complessa, non data ma indicata, che è la bellezza della verità al posto della verità della mera bellezza, che vanno a  pescare le proprie condizioni di possibilità in regioni diverse dalla mistica imperiale della irrealtà altodefinita o realtà-in-quanto-alta-definizione.

I fatti succosi della vita dell’uomo, come di tutte le vita di cui siamo abituato a nutrirci da decenni di impero dei reality, li veniamo a sapere da altre fonti. In astinenza da queste informazioni torniamo a casa, se già non sapevamo tutto, e andiamo a googlare scoprendo  che la regista ha lasciato fuori dal campo della sua opera una quantità di materiali pubblici di quella vita che utilizzati come materiale del documentario avrebbero riportato immediatamente questo lavoro nell’ideologia consumistica della cronaca, del report, dello speciale televisivo, ovvero nel modello conforme, innalzando certamente i coefficienti merceologici, l’appeal voyeuristico e quindi il potenziale del successo spettacolare. Nel fare questo sentiamo a posteriori che il regista aveva preventivato questa nostra mossa, come che ci avesse consapevolmente rimandati a confrontarci con le nostre incallite abitudini di consumatori spettacolari fuori dal cinema che aveva strappato con il suo lavoro al feticismo spettacolare.  Comprendiamo cosi solo a posteriori che il film è scolpito esteticamente staccando il più possibile dalla universale essenza biopolitica della vicenda  tutto il materiale personalistico della vita della vittima. Limpida, rischiosa, spericolata scelta di cifra stilistica.

la questione della biopolitica e la questione della sorveglianza e della punizione sono le questioni centrali del film, e insieme della relazione che con esse l’arte ingaggia, assolutamente foucaultiane che senza essere esteticamente coinvolte come mera materia in una generica produzione di spettacolo tout court, cioè in una mercificazione dell’intero esistente,  vengono qui reimmesse nella  sterilizzata sfera pubblica italiana da cui erano decisamente scomparse per attestarsi solo nelle resistenze culturali delle sfere private dei pochissimi “lettori forti” che sono restati in italia ( come dicono le implacabili statistiche). Una maschile  voce narrante che ad un certo punto scuotendoci dalla atroce stupefazione in cui cadiamo man mano guardando il film -e dobbiamo attivamente guardare piuttosto che passivamente vedere proprio perché non siamo investiti dalla potenza dell’artifizio estetizzante della teknè spettacolare- comincia a enunciare la descrizione tecnico-scientifica delle cause fisiche della morte, la diagnosi legale, facendo anche qui  immediatamente riecheggiare  il registro di Foucault  ne “La nascita della clinica”, quel tema del rapporto della parola con la nascita del sapere. Come anche ci si chiarisce in questo film che il panopticon è anche, invertendo la polarità,  il potere della sottrazione totale del visibile, del divieto allo sguardo, del sequestro delle immagini, il registrare le immagini della nuda vita prigioniera non per mostrarle ma per sottrarle alla vista della società democratica fino a che, uccisa quella vita, non siano destinate a essere distrutte senza lasciare traccia del crimine : sempre un problema di rapporto con la verità, insomma moltissimo, per non voler dire tutto, in questo film ci richiama alle questioni che Foucault ha lasciato sospese alla sua morte, questioni che riguardano la nostra attuale condizione umana, questioni che attendono urgentemente  di essere riprese,  e che una regista italiana miracolosamente ha riportato anche come un atto di giustizia verso una vittima del potere biopolitico, nel panorama -attenzione- del nostro sguardo nella sfera pubblica e sotto lo sguardo anche degli altri. Queste solo alcune delle cose che si rischia di pensare assistendo a 87ore.

“Hai detto due-tre cose che mi appunto “ mi ha detto dopo il film la regista  mentre gentilmente con il suo compagno, il regista Daniele Vicari, a notte ormai fonda mi accompagnavano a casa a San Lorenzo, dopo che per ore avevamo discusso intensamente  come troppo spesso non si fa ormai più da decenni in questo paese grazie al portato di una opera. Ma non sono quelle che ho scritto qui visto che Costanza ha promesso di appuntarle lei stessa.  Queste qui scritte Sono invece quelle che non avevo avuto il tempo di dirle e che grazie al suo lavoro  ho continuato a pensare senza interruzione anche il giorno dopo e che sono divenute insieme a 87ore parte del mio bagaglio e dei miei strumenti permanenti di navigazione

È cosi? E questo cinema è veramente foucaultiano? A breve quando 87ore uscirà  nelle sale a Roma e Milano il 23 novembre potrete,  e avete il dovere di farlo,  giudicare  certamente del suo film ma anche  del biopotere che può annientarvi in un batter d’occhio nell’impotenza sociale delle masse alienate davanti alle irrealtà ad alta definizione, dovrete rispondere a voi stessi un qualcosa.

Scoprirete anche il mare come  attore che interpreta in questo film il fatale destino del tragico che l’uomo con la sua Hybris non cessa di scagliare contro se stesso nelle persone dei propri fratelli.

David Colantoni è poeta, scrittore, saggista pittore e artista visivo. E' autore della rivista Nuovi Argomenti, fondata da Alberto Moravia, della rivista Fermenti, e del Giornale-Off. Ha fondato e diretto il mensile di pensiero e letteratura Lettere dalla Frontiera. Insieme ad Aldo Rosselli, figlio dello storico del risorgimento Nello Rosselli e Nipote di Carlo Rosselli, di cui è stato amico e allievo per quasi 30 anni, ha fondato nel 1999 il quadrimestrale di cultura Inchiostri.  Per il cinema ha sceneggiato "Io, l'altro" 2007 , di Moshen Melliti. distribuito da 20th Century Fox. La sua Ultima esposizione come artista è avvenuta al Moscow Museum of Modern Art a giugno del 2015.

Pubblicato: Mercoledì, 11 Novembre 2015 15:40

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