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Le ultime 87 ore

art man 06 novil manifesto, 06-11-2015
Giovanna Branca

Cinema. Costanza Quatriglio e il suo documentario sul caso del maestro sottoposto a TSO e morto dopo cinque giorni di agonia, legato ad un letto. Una vicenda di malasanità

Era il 31 luglio 2009 quando Fran­ce­sco Mastro­gio­vanni, mae­stro ele­men­tare, venne pre­le­vato da cara­bi­nieri, guar­dia costiera e per­so­nale medico da una spiag­gia del Cilento. «È una cac­cia all’uomo», dicono agli astanti per farli allon­ta­nare, come rac­conta una testi­mone. Su di lui pende un TSO (trat­ta­mento sani­ta­rio obbli­ga­to­rio) fir­mato dal sin­daco Angelo Vas­sallo per essere stato visto gui­dare la sera prima in un’area pedo­nale con lo sguardo perso nel vuoto. Con­dotto nel reparto di psi­chia­tra dell’ospedale di Vallo della Luca­nia, Mastro­gio­vanni muore cin­que giorni dopo: 87 ore – come recita il titolo del docu­men­ta­rio di Costanza Qua­tri­glio pre­sen­tato in ante­prima al Festi­val Arci­pe­lago a Roma e che verrà tra­smesso in seconda serata su Rai3 il 28 dicembre.

Cin­que gior­nate legato a un letto senza poter man­giare e senza che nes­suno degli infer­mieri o dei medici mostrasse di accor­gersi o darsi pena della sua sof­fe­renza. Nes­suno sem­bra vedere ciò che accade sotto gli occhi di tutti quelli che entrano nella sua stanza, ad ecce­zione delle tele­ca­mere di sicu­rezza, che con il loro «occhio disu­mano» — come lo chiama la regi­sta – regi­strano ogni istante del lungo mar­ti­rio dell’uomo, dalla lotta per libe­rarsi agli ultimi istanti di vita. Imma­gini che vanno a costi­tuire la prova regina del pro­cesso a carico di medici e infer­mieri alter­na­tisi in quelle 87 ore nel reparto di psi­chia­tria, que­sti ultimi tutti assolti con la moti­va­zione che «agi­vano rite­nendo di obbe­dire a un ordine legit­timo» — giu­sti­fi­ca­zione memore di altri rac­ca­pric­cianti pro­cessi in cui ci si discol­pava pro­prio attra­verso la reto­rica degli ordini rice­vuti e della fram­men­ta­zione dei com­piti. «Un infer­miere che ha chie­sto di restare ano­nimo mi ha rac­con­tato che in quei giorni non capiva ciò che stava suc­ce­dendo, che in quel momento vedeva solo il suo ’pez­zet­tino’ – rac­conta Costanza Qua­tri­glio – e solo dopo ha rea­liz­zato l’entità della vicenda».

È la regi­stra­zione «gelida» della via cru­cis di Mastro­gio­vanni il mate­riale con cui la regi­sta rea­lizza il suo docu­men­ta­rio: «la sfida era far diven­tare il docu­mento mate­ria prima per una nar­ra­zione, cer­care di tro­vare delle chiavi di let­tura», dice. Ed è pro­prio l’inumanità del mezzo a for­nire que­sta chiave: «l’occhio mec­ca­nico era stato messo lì per sor­ve­gliare i pazienti, in modo che gli infer­mieri non doves­sero nean­che entrare nelle loro stanze. Ciò che accade den­tro il reparto appar­tiene al mondo dell’insensatezza, rego­lato però da delle sue leggi interne», e in primo luogo pro­prio que­sta forma di osser­va­zione. La stra­ziante visione dell’agonia di Fran­ce­sco Mastro­gio­vanni è gui­data e inter­rotta bre­ve­mente dalla testi­mo­nianza della nipote Gra­zia Serra, tra le fon­da­trici del Comi­tato verità e giu­sti­zia per Franco Mastro­gio­vanni, che rac­conta di come un suo ten­ta­tivo di fare visita allo zio sia stato impe­dito da uno dei medici con­dan­nati in primo grado e ora in attesa del pro­cesso d’appello: le ha detto che il mae­stro «ripo­sava tran­quil­la­mente» e che la vista di parenti e amici avrebbe potuto agitarlo.

Un medico a cui è stato con­sen­tito, come rac­conta Luigi Man­coni, mem­bro della Com­mis­sione per i Diritti Umani del Senato, di con­ti­nuare, per una tipica «pato­lo­gia ita­liana», ad eser­ci­tare la pro­fes­sione e quest’estate ha seguito il TSO di un gio­vane morto in maniera ana­loga a Mastro­gio­vanni in pro­vin­cia di Salerno. Quando gli infer­mieri si accor­gono che il mae­stro ele­men­tare non respira più ten­tano invano di ria­ni­marlo, e la voce fuo­ri­campo dell’anatomo-patologo che ha ese­guito l’autopsia ci rivela, come osserva la regi­sta, «pro­prio ciò che quel freddo occhio non poteva dirci: cosa ha ucciso Mastro­gio­vanni». Sui polsi e le cavi­glie delle pro­fonde lace­ra­zioni testi­mo­nia­vano la sua lotta per libe­rarsi, e i pol­moni reca­vano il segno dell’edema pol­mo­nare che lo ha ucciso in una lenta ago­nia i cui sin­tomi sono facil­mente riconoscibili.

«Quando sono stata a tro­vare mio zio non sapevo che fosse mio diritto vederlo, e non sapevo che lui aveva il diritto di chie­dere un avvo­cato», dice Gra­zia Serra. «Per que­sto nono­stante lui fosse una per­sona estre­ma­mente riser­vata abbiamo deciso di ren­dere pub­bli­che le imma­gini di ciò che gli è acca­duto, per­ché in un momento simile degli altri fami­liari non si tro­vino ad essere così incon­sa­pe­voli dei pro­pri diritti».

Pubblicato: Venerdì, 06 Novembre 2015 12:12

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