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Rifugiati e istruzione, quando un pezzo di carta mette a rischio il destino di una generazione

art repu 2 novla Repubblica, 02-11-2015
CHIARA NARDINOCCHI

Molti di coloro che fuggono da guerre e persecuzioni sono in un possesso di un titolo accademico. Ma gli ostacoli economici e burocratici raramente permettono di continuare gli studi o lavorare seguendo il proprio percorso. Questo si traduce in una perdita per l'intero paese

ROMA - Se si è costretti a lasciare tutto, fuggire e abbandonare ciò che fino a quel momento è stata la propria vita, è facile dimenticare in un cassetto magari andato distrutto dei pezzi di carta che attestino la frequenza di scuole, professioni o università. Ma questa dimenticanza può costare caro se sopravvissuto al viaggio e approdato in Italia si ha intenzione di proseguire gli studi o lavorare nel settore in cui ci si è formati.

Scuola e università. La Costituzione italiana garantisce il diritto all'istruzione a prescindere da cittadinanza e regolarità di soggiorno. Nella pratica però questo diritto viene applicato solo fino al compimento della scuola dell'obbligo. Rifugiati e richiedenti asilo infatti hanno il diritto-dovere di concludere l'iter scolastastico imposto dalla legge a prescindere dalle carenze liguistiche, dall'incompletezza della documentazione anagrafica o dalla mancanza di un riconoscimento sociale. Molto diversa invece è la condizione di coloro che terminata la scuola dell'obbligo intendono proseguire gli studi dove sono stati interrotti a causa di guerre, persecuzioni e violenze.

La morte sociale. La nuova realtà che i rifugiati devono affrontare una volta arrivati in un paese terzo ha ripercussioni tanto pratiche quanto psicologiche. "Fratture e perdite - afferma Paola Di Prima, operatrice del settore Integrazione del Consiglio italiano per i rifugiati - simboliche e materiali rendono i rifugiati soggetti a una vera e propria morte sociale. Con la fuga si ritrovano immersi in un nuovo contesto che fatica a riconoscergli uno status giuridico tanto più un'identità socio-lavorativa. Nei rifugiati pesa l'inevitabile processo di "regressione" e sensazione di inadeguatezza che caratterizza il processo migratorio e che è legato al non saper parlare la nuova lingua, non riuscire ad esprimersi, non sentirsi riconosciuti rispetto alla storia precedente, ai saperi e al saper fare già acquisiti, ai livelli di autonomia già raggiunti".

Una corsa a ostacoli. Una volta terminata la scuola dell'obbligo, lo stato italiano non garantisce in modo sistematico il proseguimento degli studi. La legge infatti da un lato tutela la parità di trattamento tra cittadini italiani e rifugiati. Dall'altro, attraverso un complesso iter burocratico amministrativo fatto di documentazioni stringenti, ostacola di fatto il proseguimento degli studi per rifugiati e richiedenti asilo.

Studio dunque sono. A differenza dell'immagnario collettivo che spesso guarda al migrante come ad un uomo senza storia, legami e competenze, in Italia, anche in seguito al flusso di persone provenienti dalla Siria, i rifugiati sono sempre più istruiti. "Il riconoscimento delle loro qualifiche professionali - continua Di Prima - è possibile solo attraverso il riconoscimento ufficiale dei titoli di studio conseguiti nel paese d'origine. Non sempre però le persone che scappano riescono a portare con sé, al momento della fuga, gli attestati. In altri casi, viste le condizioni di guerra in cui versano i paesi da cui scappano, risulta impossibile ottenere il rilascio dei titoli dagli istituti scolastici".

Una strada non sempre percorribile. Ad ostacolare la corsa all'istruzione dei rifugiati contribuiscono anche altri fattori. Come per esempio la mancanza di corrispondenza dei titoli acquisiti con il sistema scolastico italiano. Il percorso che in Italia porta al riconoscimento di qualifiche professionali e titoli accademici è lungo e costoso, una strada non sempre percorribile da chi si trova già a dover ricostruire un'intera vita. Stesso discorso vale anche per il ricnoscimento delle conpetenze anche lavorative acquisite nella terra d'origine.

Lavoro terapeutico. A complicare la situazione contribuiscono anche le dinamiche dell'accoglienza. "Rispetto al trauma subito - prosegue Di Prima - e al disorientamento che caratterizza l'esilio, i richiedenti protezione internazionale hanno un tempo limitato di permanenza nelle strutture d'accoglienza. Questo è il tempo in cui devono essere in grado di canalizzare le proprie energie, far riemergere risorse e capacità personali e acquisirne di nuove". E proprio in questo frangente la necessità di trovare un'occupazione fa passare in secondo piano il perfezionamento delle competenze linguistico-formative.

La fase in cui si perde la partita. E' in questa fase che si perde una partita il cui esito si ripercuoterà sull'intera vita del rifugiato in quanto si troverà costretto a intraprendere percorsi poco qualificanti e non corrispondenti alle capacità o aspirazioni. Anche in questa fase poi, la mancanza di "un pezzo di carta" impedisce di accere a corsi di formazione più qualificanti che richiedono una documentazione di cui chi è fuggito in fretta da un paese in guerra spesso è sprovvisto. "La possibilità - afferma l'operatrice del Cir - di essere riconosciuti per quello che si è, si è stati e si sa fare consente di uscire dall'invisibilità acquistando anche un valore terapeutico rispetto ad una storia personale di persecuzione e dignità calpestata".

Una generazione perduta. Oltre alle ferite materiali e simboliche, la guerra riesce a distruggere anche ciò per cui si è faticato una vita: il futuro. E in questa parola rientrano anche le ambizioni, i sogni e le capacità affinate durante un percorso distrutto dall'eco delle bombe. Una perdita che si ripercuote anche sui paesi che ospitano chi fugge. "Questa serie di elementi concatenati - conclude Di Prima - ostacola la spendibilità delle esperienze professionali maturate nel paese d'origine e determina che persone con avanzati livelli di istruzione, consolidate esperienze professionali, spesso alti livelli di responsabilità vengano lette dal nostro mercato del lavoro come lavoratori privi di istruzione e competenze qualificate, riservando loro spesso collocazioni lavorative di basso profilo e di scarsissima progressione professionale verticale".

Pubblicato: Lunedì, 02 Novembre 2015 11:59

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