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Notizie

«Noi avevamo paura del mare»

art mani 7 ottil manifesto, 07-10-2015
Andrea Oskari Rossini*

Migranti. Nella rotta balcanica, da Belgrado ai valichi tra Serbia e Croazia e a quello più difficile ungherese - che ora sembra accogliere tutti - parlano i profughi siriani e afghani. A fare la differenza nella solidarietà non è l’inesistente Ue, ma gruppi informali di cittadini

Ramiz mi mostra la sua foto­gra­fia davanti a un ban­cone illu­mi­nato. A Dama­sco faceva il bari­sta. «Il Mar­tini Dry è ita­liano, vero?» Sem­bra sod­di­sfatto della con­ferma. Per arri­vare qui, alla sta­zione degli auto­bus di Bel­grado, ci ha messo 35 giorni.

Il momento più dif­fi­cile è stato il tratto in mare tra Tur­chia e Gre­cia, su un gom­mone. «Ave­vamo finito la ben­zina, ci ha aiu­tato un’altra imbar­ca­zione». Nel parco intorno a noi ci sono alcune decine di tende, altret­tante sono mon­tate in una pic­cola area verde dall’altro lato della strada.

Da alcune set­ti­mane, ogni giorno arri­vano qui cen­ti­naia di migranti e rifu­giati pro­ve­nienti da Pre­ševo, nel sud della Ser­bia. Le con­di­zioni igie­ni­che sono pes­sime. Non ci sono docce, solo alcuni bagni chi­mici in uno stato disa­stroso. La pre­senza delle auto­rità si limita a qual­che poli­ziotto di ronda. Le grandi agen­zie inter­na­zio­nali che si occu­pano di rifu­giati sono pra­ti­ca­mente assenti. La soli­da­rietà dei cit­ta­dini di Bel­grado, però, è straor­di­na­ria. Decine di volon­tari lavo­rano quo­ti­dia­na­mente per aiu­tare i migranti nel loro per­corso verso Austria e Germania.

«La gente porta quello che serve»

Alek­san­dra, una gio­vane di Pan­cevo, coor­dina gli aiuti al cen­tro Mik­sa­lište, al numero 5 della via Mostar­ska, poche cen­ti­naia di metri dalla sta­zione. Ci sono vestiti, cibo, un pre­si­dio medico, uno spa­zio per i bam­bini e la pos­si­bi­lità di rica­ri­care i cel­lu­lari. «Fun­ziona tutto tra­mite una pagina Face­book, Refu­gee Aid Ser­bia (una pagina ana­loga esi­ste anche per la Croa­zia, Dobro­do­sli dragi imi­granti, nda). La gente porta quello che serve, noi lo distribuiamo».

All’ingresso in Ser­bia, i migranti rice­vono un per­messo di tre giorni per attra­ver­sare il paese. Alek­san­dra mi spiega che da qual­che giorno una parte di loro cerca di andare diret­ta­mente dal valico di Pre­ševo, tra Ser­bia e Mace­do­nia, a quello di Šid, tra Ser­bia e Croa­zia, senza pas­sare per Bel­grado. Nella capi­tale serba, però, con­ti­nuano ad arri­vare molte per­sone che hanno biso­gno di aiuto, o sem­pli­ce­mente di farsi tra­sfe­rire denaro dai fami­liari tra­mite Western Union.

Tijana, di 23 anni, è una delle volon­ta­rie dell’Info Park, una barac­chetta di legno che si trova a pochi metri dal mar­cia­piede su cui arri­vano gli auto­bus. Ci sono inter­preti dall’arabo e dal farsi. «Cer­chiamo di dare infor­ma­zioni il più pos­si­bile det­ta­gliate su come pro­se­guire il viag­gio, e su come pro­teg­gersi dai pro­fit­ta­tori che chie­dono tariffe fuori mer­cato solo per accom­pa­gnarli a Šid». Rah­ma­tul­lah, un ragazzo afghano di un vil­lag­gio vicino a Kabul, mi dice che per lui il tratto più dif­fi­cile è stato in Bul­ga­ria. «Ave­vamo paura del mare, e dalla Tur­chia siamo entrati diret­ta­mente in Bul­ga­ria. Abbiamo cam­mi­nato per tre giorni nella fore­sta, senza cibo. Ci siamo persi, poi una donna ci ha indi­cato la strada».

A Kabul ha pagato 4.000 dol­lari a un traf­fi­cante. «Loro poi ti ven­dono agli altri traf­fi­canti che incon­tri lungo la strada. Quando arrivi a un punto di pas­sag­gio chiami, e dici dove sei. Poi aspetti».

Per strada, accanto al parco, c’è un camion cisterna con acqua pota­bile. Alcuni migranti cer­cano di lavarsi ai rubi­netti della cisterna. Tra poco, qui a Bel­grado, farà freddo. Il governo serbo ha alle­stito un campo a Krn­jaca, sulla strada per Pan­cevo, ma non ci vuole andare nes­suno. Il timore di molti è di rima­nere bloc­cati in Ser­bia. Come mi spiega una ragazza di Dama­sco, che viag­gia con la fami­glia della sorella, la mag­gio­ranza dei siriani vuole andare in Ger­ma­nia. «Noi abbiamo finito i soldi, stiamo cer­cando un modo per rac­co­gliere i dieci euro a testa per arri­vare alla fron­tiera con la Croa­zia. Ma non vogliamo fermarci».

Al valico di fron­tiera di Šid-Tovarnik

Il valico di fron­tiera di Šid-Tovarnik è a circa un’ora e mezza da qui. Senza un pas­sa­porto valido, non si passa. A circa un chi­lo­me­tro dal con­fine, però, alcuni volon­tari indi­cano una strada ster­rata tra i campi di mais. Un ragazzo serbo mi dice che è sicuro. Non ci sono con­trolli di poli­zia, e vedo alcuni migranti inco­lon­narsi nella cam­pa­gna, pun­tando verso occi­dente. Un altro valico «infor­male» è in fun­zione qual­che chi­lo­me­tro più a nord, nel vil­lag­gio di Ber­ka­sovo. È qui che arriva la mag­gior parte della gente, con gli auto­bus che pro­ven­gono da Bel­grado o da Pre­ševo. Anche qui non ci sono poli­ziotti, tranne una jeep che segue il movi­mento dei pro­fu­ghi a distanza. Alcuni ragazzi cechi aiu­tano i migranti ad attra­ver­sare la fron­tiera in maniera sicura. «Abbiamo ini­ziato per con­tra­stare in modo palese la posi­zione del nostro governo sui migranti», mi spiega una di loro. «Ci tur­niamo ogni due o tre giorni, le con­di­zioni qui sono fati­cose. Ma ci sono già cen­ti­naia di per­sone coin­volte nel nostro movimento».

«Fino a sei­mila per­sone al giorno»

Nono­stante le recenti sca­ra­mucce diplo­ma­ti­che tra Zaga­bria e Bel­grado, e l’ipocrisia mostrata dal governo unghe­rese, è evi­dente che esi­ste un accordo tra Ser­bia, Croa­zia e Unghe­ria. Dall’altra parte dei campi ci sono i poli­ziotti croati che atten­dono i pro­fu­ghi per con­durli nel cen­tro di iden­ti­fi­ca­zione di Opa­to­vac, poco distante. Da lì, li por­tano su treni o auto­bus diret­ta­mente al con­fine unghe­rese. E le auto­rità unghe­resi, dopo aver tuo­nato con­tro gli immi­grati e aver eretto un muro al con­fine con la Ser­bia, ora li pren­dono tran­quil­la­mente in carico al con­fine con la Croa­zia per con­durli in Austria. L’importante è aver mostrato la fac­cia dura all’opinione pub­blica interna.

«Il ritmo varia dalle quat­tro alle sei­mila per­sone al giorno», mi spiega gen­tile una fun­zio­na­ria del mini­stero degli Interni croato, Helena Bio­cic. «Dall’inizio della crisi, qui in Croa­zia sono pas­sate più di 110.000 per­sone». Bio­cic mi accom­pa­gna all’interno del cen­tro di Opa­to­vac. Decine di per­sone sono in fila all’ingresso di una delle grandi tende mili­tari che com­pon­gono il campo. «La capa­cità è di 4.000 per­sone, ma finora non abbiamo mai rag­giunto que­sti numeri. I migranti restano nel campo solo poche ore, poi ven­gono tra­sfe­riti al con­fine con l’Ungheria. Li accom­pa­gniamo al valico di Baranjsko-Petrovo Selo, con gli auto­bus, oppure in treno da Tovar­nik a Botovo».

Le con­di­zioni del campo sem­brano buone. Le per­sone rice­vono cibo e acqua, vestiti, e pos­sono farsi una doc­cia. All’interno ci sono anche un pre­si­dio medico e un ten­done della Croce Rossa, che fun­ziona come cen­tro di rac­colta e scam­bio infor­ma­zioni per chi abbia smar­rito un fami­liare. Il fun­zio­na­rio di un’agenzia inter­na­zio­nale, che non vuole essere citato, mi spiega che all’inizio la situa­zione a Opa­to­vac era «cao­tica». Qual­cuno si è perso per­ché i pro­fu­ghi erano tra­sfe­riti in gruppi di 50, e alcune fami­glie si sono tro­vate in gruppi diversi. Ora, mi dice Rafal Kostr­zyn­ski, por­ta­voce dell’Unhcr in Croa­zia, la situa­zione è molto miglio­rata e le con­di­zioni del campo di Opa­to­vac sono in gene­rale «molto buone».

Chiedo a Kostr­zyn­ski se il fatto di essere iden­ti­fi­cati in Croa­zia com­porti l’impossibilità di fare richie­sta di asilo in Ger­ma­nia, per le regole di Dublino. Allarga le mani. «È una situa­zione ancora irre­go­lare. In teo­ria, se hanno preso loro le impronte digi­tali non potreb­bero fare richie­sta di asilo in Ger­ma­nia. La Ger­ma­nia però ha dichia­rato aper­ta­mente che non uti­liz­zerà l’eccezione di Dublino», «Solo per i siriani?», «Biso­gna chie­derlo alle auto­rità tedesche».

La fatica di chi lavora sul ter­reno in con­di­zioni che con­ti­nuano a mutare, in assenza di una qual­si­vo­glia rispo­sta dell’Unione Euro­pea, è evi­dente. «Serve una rispo­sta più forte e coe­rente da parte dell’Ue, ser­vono schemi di ricol­lo­ca­zione delle per­sone e modi legali e sicuri per arri­vare in Europa», si infer­vora Kostr­zyn­ski. «L’accordo su 120.000 per­sone va bene, ma non basta».

Nel 2015, più di 500.000 per­sone hanno attra­ver­sato il Medi­ter­ra­neo. Tre­mila sono morti nel viaggio.

I cor­ri­doi uma­ni­tari non sono ancora nem­meno entrati nel dibat­tito di Bru­xel­les. La mafia ingrassa, e ringrazia.

Dal Medio Oriente e dall’Afghanistan ognuno ha pagato ai traf­fi­canti almeno 4.000 euro. Anche i morti.

Ma nella rotta dei Bal­cani le rispo­ste più rapide e effi­caci ad oggi le hanno date gruppi infor­mali di cit­ta­dini, orga­niz­zati nelle maniere più diverse. Come i ragazzi di Bel­grado o quelli di Praga, a Ber­ka­sovo. Sono gli unici rife­ri­menti affi­da­bili in que­sta odissea.

* Osser­va­to­rio Bal­cani e Caucaso

Pubblicato: Mercoledì, 07 Ottobre 2015 13:24

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