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La mia fuga in Germania

art huffing 16 setL'Huffington Post, 16-09-2015

Rami, 17 anni, sta fuggendo dalla Siria per raggiungere la Germania. In Serbia, ha parlato con l'associazione CARE della sua fuga, della guerra nel suo paese e delle sue speranze.

Il mio nome è Rami. Tra quattro mesi compirò 18 anni. Non vedo l'ora che arrivi il mio compleanno, anche se sarò lontano da casa e non lo festeggerò con i miei amici e la mia famiglia. Vengo da Damasco, capitale della Siria.

Diciotto giorni fa ho lasciato mio padre, mia madre, mio fratello e mia sorella per iniziare il mio viaggio verso una nuova vita. La mia famiglia ha riposto in me ogni speranza. Mi hanno riempito lo zaino e mi hanno mandato via con tutti i loro risparmi, quasi tremila dollari. Mio padre lavora in una banca, mia madre è direttrice di un istituto scolastico, mentre mio fratello lavora in un hotel. I membri della mia famiglia hanno risparmiato buona parte del loro stipendio mensile per pagarmi il viaggio.

Volevano assicurarmi un futuro, lontano dalla guerra civile in Siria. Una guerra che ha costretto più di 11 milioni di persone a scappare dalla loro vita. Solo alcune settimane fa andavo ancora a scuola, ma la maggior parte dei banchi in classe era vuota. Molti dei miei compagni erano fuggiti, da un giorno all'altro.

Tante persone hanno già lasciato la Siria, mentre altre cercano ancora di scappare. Tre settimane fa, anche il mio banco è rimasto ad aspettarmi. Ho guidato fino al confine con il Libano. Superare il confine è pericoloso e molto costoso. Ho attraversato Beirut e poi sono arrivato in Turchia.

Qui, per la prima volta, ho respirato di nuovo. Ho sentito che potevo farcela, che sarei riuscito a realizzare il mio sogno di vivere in Germania, un giorno.

I miei amici che vivono già lì mi raccontano della vita serena che conducono. Mi dicono quanto siano grati alle persone accoglienti che hanno conosciuto e da cui hanno ricevuto aiuto.

In Turchia, sono salito su una barca che mi ha condotto a Kos, un'isola della Grecia. La barca era lunga due metri ed avrebbe potuto trasportare solo cinque persone, ma eravamo più di 20 a bordo. Molti di noi erano siriani, ma c'era anche chi veniva dall'Iraq e dall'Afghanistan. Il viaggio è durato più di due ore, anche se in un tragitto normale s'impiegano solo trenta minuti. Ma procedevamo a rilento perché la barca era strapiena e troppo pesante. Con noi c'era anche una donna con la sua bimba appena nata.

La neonata ha pianto per tutto il viaggio. Il mare era agitato e molti dei passeggeri erano terrorizzati. Ma io non avevo paura. So di essere un bravo nuotatore ed ero pronto a tuffarmi in acqua in ogni momento. Avevo avvolto i soldi, il mio passaporto ed il cellulare in un involucro di plastica, così tutto sarebbe stato al sicuro. Per fortuna, siamo arrivati a Kos sani e salvi. Siamo rimasti lì per quattro giorni.
È stato costoso, ma avevamo bisogno di una pausa dal viaggio. A Kos, c'erano diverse associazioni pronte a soccorrere i rifugiati. Ho aiutato i volontari a distribuire acqua, succhi di frutta, latte e cibo ai miei compatrioti ed altri migranti.

Un giorno, mentre eravamo su una collina a ridosso della costa, abbiamo avvistato una barca stracarica di persone che stava per ribaltarsi. Urlando, abbiamo avvertito la guardia costiera greca che è corsa in aiuto dell'imbarcazione, riuscendo a salvare tutti i passeggeri. Queste immagini, questi ricordi sono ancora vivi e brucianti dentro di me.

Nella mia mente sono impresse anche le scene della Macedonia. Lì, abbiamo visto in faccia l'orrore più assoluto. Ci hanno messi su un treno e portati fino al confine serbo. Non potevamo muoverci, abbiamo dovuto aspettare, nervosi e impauriti, per diverse ore. Eravamo come animali in gabbia.

Quando finalmente siamo arrivati al confine, c'erano già circa 2000 persone che aspettavano di essere ammesse in Serbia. Ci siamo uniti al folto gruppo e siamo stati rapidamente spediti oltre la frontiera. Ma lì c'è stato il panico. Tutti volevano essere i primi ad entrare, non avevano alcun riguardo per gli altri e nessuno pensava ai bambini.

Durante il viaggio, ho legato con una famiglia che avevo conosciuto in Siria. Amal, la più piccola, è stata travolta da quella massa di corpi agitati. All'improvviso, l'abbiamo persa di vista. Le persone continuavano a calpestarla fino ad impedirle di respirare.

Suo nonno è scoppiato in lacrime perché non riusciva a trovarla. Ma, ad un tratto, sono stato io a vederla. Potevo ancora raggiungerla, l'ho tirata verso di me e portata oltre il confine.

Oggi sono arrivato a Subotica, nel nord della Serbia. Non so ancora in che modo proseguirò il viaggio. Voglio solo raggiungere la Germania e stabilirmi lì, condurre una vita sicura. Una volta arrivato, farò venire anche la mia famiglia. Ma prima devo capire come entrare in Ungheria.

Conto molto sull'aiuto altrui, sono grato alle organizzazioni umanitarie come CARE. Con l'aiuto del telefono, sto cercando di capire qualcosa in più sulla situazione al confine con la Serbia.

Gli amici che sono già in Europa guardano i notiziari per me, m'inviano informazioni che mi saranno utili per il resto del viaggio. Ma adesso non so come e se riuscirò ad oltrepassare la frontiera Serbia-Ungheria. Ho spento il telefono perché devo stare attento alla batteria. L'ultima volta che sono riuscito a ricaricarla del tutto è stata in un albergo di Belgrado, dove ho pagato tantissimo per permettermi una stanza. Mi è costato circa 100 euro passare la notte lì, ma mi sono concesso questo lusso perché ero stremato ed avevo bisogno di una presa elettrica.

Il mio telefono cellulare è la cosa più preziosa che ho. Non devo perderlo. Senza, non potrei comunicare con mia madre che si preoccupa per me ed ha bisogno di sapere come sto e dove sono, ogni giorno.

Mi sveglio in una città diversa quasi ogni giorno. Dormo agli angoli delle strade, sotto gli alberi, nei campi. Sono stanco, sempre. I quattro anni e più di guerra civile in Siria mi hanno lasciato dei segni profondi. Durante questo viaggio, ho vissuto innumerevoli situazioni che non posso dimenticare.

Molte persone mi chiedono perché lo faccio, perché mi espongo a tutti questi pericoli. Non sanno che per me restare in Siria sarebbe di gran lunga più rischioso. Questo è l'unico modo per sfuggire al servizio militare.

Da quando è scoppiata la guerra in Siria, nessuno è più al sicuro. Non voglio uccidere, non voglio causare ancora sofferenze e dolore ai nonni, alle madri e ai padri della mia terra. Voglio aiutare le persone. Per farlo, devo trovare un modo per restare vivo.

La storia di Rami è apparsa per la prima volta sul blog Care-international. Questo post è apparso su HuffPost Germania ed è stato poi tradotto dall'inglese da Milena Sanfilippo.

Pubblicato: Mercoledì, 16 Settembre 2015 11:08

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