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"Ecco perché il carcere dev'essere abolito"
La Nuova Sardegna, 25-05-2015
Costantino Cossu
Intervista a Luigi Manconi e Valentina Calderone
"La detenzione in strutture in genere fatiscenti è sovraffollate deve essere abolita e sostituita da misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori di reati più gravi quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale".
Questa la tesi del libro "Abolire il carcere" (Chiarelettere, 122 pagine 12 euro) scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Una provocazione? No. In questa intervista i due autori spiegano perché.
Il carcere è un deterrente efficace contro la violazione delle leggi o, al contrario, ha un effetto di incremento del tasso generale di criminalità?
Valentina Calderone: "Se fosse un deterrente non avremmo quei dati così allarmanti sulla recidiva, e l'esito positivo del ricorso alle misure alternative dice che la via per ridurre il numero dei reati è proprio un'altra. E poi bisogna sempre ricordare da chi è composta la popolazione detenuta: stranieri, tossicomani, poveri, malati di mente, senza fissa dimora, alcolisti. Tutte persone che richiederebbero misure radicalmente diverse, come cura, disintossicazione, assistenza sociale, formazione e avvio al lavoro.
I veri pericolosi in carcere, coloro i quali commettono reati gravi, sono al massimo il 10 per cento. Se a portarti in carcere sono la miseria e la marginalità, come si può pretendere che le cose cambino dopo anni di vuota segregazione, senza alcuna attività o prospettiva? Il carcere nel nostro paese è una sorta di "parcheggio", dove vieni abbandonato insieme a tanti tuoi simili. Puoi rischiare di entrare venticinquenne come piccolo spacciatore e, nei lunghi giorni senza niente, uscire trentenne come rapinatore. In questo senso sì, il carcere può essere davvero una grande scuola di criminalità.
Se il carcere non recupera e neppure scoraggia il crimine, a che cosa serve?
Luigi Manconi: "Non serve a niente, appunto. Anzi, se non servisse a niente e fosse, come dire, un luogo "neutro", che non arricchisce ma nemmeno annichilisce, allora forse sarebbe diverso. Ma il carcere ha degli effetti, ben visibili, tangibili, indiscutibili. Abbrutisce, rende pericolosi. Insomma, incattivisce. E allora è meglio chiedersi a chi serva il carcere, piuttosto che a cosa: serve a agli imprenditori politici della paura, che possono riempirsi la bocca con parole come "tolleranza zero", "certezza della pena", "carcere duro". Insomma, più carcere per tutti. E serve anche al comune cittadino, che preda di paura e insicurezza talvolta reali talvolta immaginarie, si sente tutelato dall'esistenza del carcere. Se solo quel cittadino sapesse quanto in realtà il carcere fa male in primo luogo a lui".
C'è un rapporto tra l'attuale sistema carcerario e le violenze di cui si rendono responsabili le forze dell'ordine nell'atto di svolgere i loro compiti istituzionali?
V.C. "Sì c'è, ed è inevitabile. Noi pensiamo che quanto succede in carcere, soprusi, violenze, umiliazioni, non dipenda tanto dal sadismo dei singoli. È l'istituzione carcere, con le sue dinamiche, a giocare un ruolo determinante. La cattività, la promiscuità, l'inattività - tanto per i controllori quanto per i controllati - crea una miscela esplosiva. Il carcere ti invade con il suo vuoto, e tira fuori la parte peggiore di te. E la violenza non è solo quella che si esprime tra poliziotti e detenuti, o tra detenuti e detenuti. In carcere ci si taglia il corpo con lamette di fortuna, si aspira il gas delle bombolette da campeggio fino a soffocarsi, ci si impicca alla grata della finestra. Ci si fa male e in alcuni casi, troppi, si muore. Ma non sono solo i detenuti a decidere che il carcere è talmente insopportabile da trovare preferibile togliersi la vita. Oltre al costante numero di suicidi tra detenuti è cresciuto enormemente quello tra poliziotti: negli ultimi dieci anni oltre 100 agenti si sono tolti la vita".
Con quali misure alternative va sostituito il carcere?
L.M. "Nel nostro ordinamento esistono misure come l'affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà e la detenzione domiciliare. Recentemente è stato introdotto l'istituto della messa alla prova, il cui scopo è evitare addirittura l'inizio del processo, che verrà celebrato solo nel caso in cui la messa alla prova dovesse fallire. L'utilizzo di queste misure non è sufficiente e in ogni caso possiamo imparare molto da alcuni paesi europei che da anni ricorrono a sanzioni diverse, con un principio di gradualità che porta a considerare il carcere come extrema ratio: le sanzioni a carattere interdittivo e prescrittivo, le pene pecuniarie e le sanzioni civili".
Quali problemi organizzativi e quali problemi economici comporterebbe l'attuazione di tali misure?
V.C. "Forse bisognerebbe porsi la domanda contraria: quanto viene speso per l'attuazione delle misure alternative? Briciole, purtroppo. Le risorse messe a bilancio e utilizzate nel 2013 ammontano a poco più di tre miliardi di euro e agli uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) ne viene destinato solo il 2,5 per cento. Su 45mila dipendenti dell'amministrazione penitenziaria, solo 1500 sono gli addetti agli Uepe, i quali devono gestire 31.000 persone all'anno. I poliziotti penitenziari sono quasi 40mila. Quello che ci chiediamo, allora, è: dopo lo scandalo prodotto dalla Sentenza Torreggiani, in cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ci ha condannati per il sovraffollamento, i provvedimenti svuotacarceri e il piano di costruzione di nuovi istituti, non era più semplice ridistribuire le risorse e potenziare le strutture che si occupano di alternative? Per noi la risposta è scontata, ma evidentemente i nostri criteri di buon senso non sono abbastanza condivisi".
Ma in Italia esiste oggi uno spazio politico per costruire una moderna cultura dei diritti?
L.M. "È uno spazio assai angusto. Ma ciò, lungi dall'indurci all'inerzia ci spinge a provarci e a riprovarci ancora. Come facciamo con questo libro".