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Quel dialogo tra un tunisino e un secondino

abolire il carcere 2Cronache del Garantista, 21 maggio 2015
 
Eva Patrizi
 
Manconi, Anastasia, Calderone e Resta propongono in 100 pagine"una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini"
 
Abolire il carcere. Un titolo che assomiglia a una sfida, a una dichiarazione utopistica, a un impegno tanto generoso quanto ingenuo. Ma non è così. Abolire il carcere è un progetto razionale, che convince. E peccato per quelli che al sottotitolo, "Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini", sorrideranno pensando a un ossimoro: perché come si può, in un momento in cui sembra trionfare il giustizialismo, pensare davvero che i cittadini possano sentirsi ed essere più sicuri aprendo le sbarre? Si può, invece, e Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta lo dimostrano in poco più di 100 pagine (per le edizioni Chiarelettere), pagine che, tutte, rendono evidente la necessità di superare questo strumento tanto obsoleto quanto disumano. Le argomentazioni sono le più varie: dalle giuste osservazioni di Belen Rodriguez su Fabrizio Corona ("L'unico problema che ha sono i soldi. Secondo me la condanna che dovevano dargli è una grandissima multa salata e basta"), che portano a interrogarsi sull'esigenza di una pena adatta alla personalità del reo ed effettivamente deterrente, ad analisi stringenti dei bilanci del Dap; dalle sentenze della Corte Europea dei diritti dell'uomo all'uso della pena da parte dello stato in prospettiva storica e sociologica. 
 
Ma non c'è solo questo in Abolire il carcere. C'è anche l'esperienza diretta della violenza subita da chi si trova privato  della libertà personale presso gli istituti di custodia, e non si parla solo dei carcerati, ma anche della frustrazione delle guardie, vittime del carcere insieme ai reclusi. E vittime siamo tutti, in realtà, a causa della permanenza di questo monstrum nel nostro Stato. Un luogo in cui sembra che la dignità umana e tutti i valori della nostra Costituzione  spariscano, come se chi ha sbagliato (o potrebbe aver sbagliato, dato che un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio) non meriti la qualità di Uomo. 
 
Dopo aver colpito alla pancia il lettore attraverso la forza del dialogo di un tunisino di nome Rashid Assarad con un agente penitenziario, che candidamente ammette di averlo picchiato in quanto rappresentante della legge in quel luogo di nessuno, e dopo aver messo un'angoscia inverosimile nel lettore che si sente per qualche istante Rashid, imprigionato quanto lui in una realtà in cui  queste cose accadono senza conseguenze o limiti, viene mostrata una speranza. Una speranza nelle misure alternative alla detenzione, nel fatto che non debbano essere alternative ma centrali per ricondurre la pena alla sua dimensione costituzionale, quella di extrema ratio e di via per la risocializzazione piuttosto che di afflizione fine a se stessa. 
 
E se alla fine residuasse ancora qualche dubbio, la postfazione di Gustavo Zagrebelsky sarà in grado di dissiparlo. Una breve citazione: “... Ma tutto questo risolve il problema della dignità? No non lo risolve per il fatto in sé che il carcere per come è stato pensato storicamente ed è insito nel suo nocciolo, equivale a uno sradicamento, a un'amputazione, a un occultamento di una parte della società che l'altra, la società «per bene» non vuole più incontrare, vedere...”.
 
Parafrasando Zagrebelsky, Abolire il carcere supera la concezione dello sradicamento, guarda là dove la politica della paura e l'ingenuità di un popolo spaventato hanno preferito soprassedere, prendendo atto che il carcere non è una parte staccata, amputata dalla società, ma è lo specchio della società stessa. Quanto a lungo riusciremo ancora a fingere che questo specchio non ci stia rimandando la nostra immagine? 
 
Pubblicato: Giovedì, 21 Maggio 2015 16:52

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