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Dal suk al bordello i mille volti di Mineo, la città dei profughi fuggiti dall'inferno

art. repub mineola Repubblica, 22-04-2015
ATTILIO BOLZONI

Il centro d’accoglienza. Nell’ex residence destinato ai militari americani trasformato in struttura per i richiedenti asilo: qui convivono i superstiti dell’ultimo naufragio e i trafficanti di uomini che si nascondono tra i disperati. Una babilonia di lingue e di costumi “Non abbiamo più storie da raccontare perché il mare ha cancellato anche il nostro passato”

MINEO - Un passo, solo un passo e siamo già in un mondo che è un altro mondo. Abbiamo appena attraversato il confine, intorno non c'è più nulla che possiamo riconoscere o spiegare, davanti a noi ci sono soltanto loro, solo gli schiavi rimasti vivi. L'ultimo è diventato stanotte l'abitante numero 3241 di una città in mezzo al niente, la nuova casa italiana di quelli con la pelle nera.
Sembrano fantasmi, vagano di qua o di là, s'infilano nei sentieri polverosi e scompaiono fra le zagare, ricompaiono all'improvviso sorridenti o incarogniti, urlano, si ammutoliscono, pregano, bestemmiano, inseguono cani e si fanno mordere dai cani, si stendono al sole, comprano e vendono felpe, treccine, zucchero, detersivi, schede telefoniche e anche fumo per stonarsi. Ci sono ragazze che piangono e ce ne sono altre che battono, la strada per Palagonia è un casino a cielo aperto.

Ma cos'è questo luogo oltre le nostre frontiere conosciute che si ostinano a chiamare "Residence degli Aranci " e che è sperduto nella campagna siciliana? Cos'è questo mega-villaggio un tempo costruito a misura e gusto dei marines di stanza a Sigonella e che nel 2011 Berlusconi e Maroni hanno voluto trasformare nel centro governativo di accoglienza per richiedenti asilo più grande d'Europa, villette a schiera che da lontano luccicano come un resort a cinque stelle e da vicino fanno venire i brividi? È inferno o paradiso il Cara di Mineo, è deserto o bazar questo domicilio coatto per naufraghi e negrieri, sventurati e miracolati, vittime e carnefici?

Un passo e il giorno dopo ci siamo entrati dentro, il giorno dopo la "tragedia" (che brutta parola, come se fosse avvenuto tutto per caso, per fatalità) degli 850 o dei 900 ingoiati dal mare fra la Libia e l'isola di Malta, un altro viaggio e un altro massacro di massa. I resti li scaricano qua. Resti umani.
Il cancello, la sbarra di ferro, il reticolato, i soldati che imbracciano i mitra, i mezzi blindati e poi la Constitution Avenue che dopo una curva ti porta sull'Intrepid Lane, la strada principale della città in mezzo al niente che ha mantenuto la segnaletica della sua disciplinata base militare statunitense. Scritte blu tutte in inglese e poi il disordine, l'ammasso, la confusione di voci e di odori, cibi, spezie, tanfi, ventinove etnie, duecento tribù, una lingua diversa a ogni metro, la babilonia di Mineo in una tranquilla giornata di primavera quando comincia o finisce la solita conta dei vivi e dei morti.

Ogni casa è un numero a quattro cifre che comincia con un 1, ogni numero è una famiglia siriana o somala, del Ghana, del Niger, dell`Eritrea, un piano per i fratelli e un altro piano per gli amici, profughi dello stesso paese o della stessa regione, ogni villetta -ce ne sono 404 -color ocrapallido o arancio è 160 metri quadri, tre bagni per dodici uomini o per dodici donne, tanti popoli mescolati in un solo popolo. Alle 4 del mattino del 21 aprile del 2015 sono quei tremiladuecentoquarantuno. Compresi ventinove bambini con meno di tre anni. Compresi gli ultimi diciotto superstiti trasportati da Catania.
Ibrahim, che giorno è oggi? «Come ieri e come sarà domani, per me è uguale sempre», risponde l`egiziano che si è accucciato sotto il cartellone della sala ricevimenti «La Rondine», la provinciale 417 segue per un pezzo il reticolato del Cara e poi si perde tra gli agrumeti.

È o forse sembra una giornata come tutte le altre. Solo a metà dell`Intrepid Lane c`è qualcuno che sorveglia qualcun altro. Alla casa numero 1041 ci sono i diciotto nuovi arrivi. E c`è anche lui, Sibibe, ragazzo che viene dal Mali e che non ha nemmeno vent`anni. Non ha più niente dopo la traversata Sibibe. Ha perso tutto, parenti e amici. Dice: «Non ho storie da raccontarvi, dopo quel viaggio nemmeno io ho più una storia». È Sibibe l`ultimo abitante censito al Cara di Mineo, l`ultimo schiavo sopravvissuto.

È rintanato nella sua nuova casa italiana mentre da li entrano ed escono psicologi e interpreti, medici, generosi volontari. Intorno nessuno sembra interessato a Sibibe e ai suoi amici, la vita degli altri scorre come ogni giorno da un mese o da un anno, tutti rinchiusi a tempo «indefinito» aspettando una carta per la libertà. Come per Adesua e per sua sorella Gift, nigeriane che sono ammucchiate con altre undici donne nella palazzina numero 1050. Come per Osaze e per Guidar, senegalesi che cinque sbarchi fa hanno conosciuto l`Italia dietro le reti e fra i soldati di Mineo.

È un caravanserraglio con tante regole e con nessuna regola, pulito e sudicio, spettrale e colorato, miserabile e insieme dignitoso, bivacco di resistenza umana dopo il mare che si è portato via già tanto. C`è tutto quello che serve ai suoi abitanti. Il barbiere è in una baracca di fronte alla casa 1051, il suk dei pachistani -il più fornito, con il the, lo yogurt, i biscotti, i pistacchi, lo shampoo - è un po` più avanti, ci sono duebimbiche giocano su una giostra rossa e un altro che è sullo scivolo, c`è un meccanico di biciclette, c`è qualcuno che dà calci a un pallone. C`è tutto e c`è niente nella terra di nessuno del Cara di Mineo, info point e brodaglie che bollono nei pentoloni, le antenne paraboliche, qualcuno le compra e qualcun altro le ruba. E poi la moschea, un grande tendone vicino alla Bain Bridge Court, che a mezzogiorno è vuota. Come è vuota anche la piccola chiesa davanti allo spaccio.

Sono già tutti a mensa, oggi riso in bianco e petto di pollo, di sera pasta al pomodoro, patate fritte e frutta. Sono già tutti in mensa quelli che restano dentro, gli altri sono sparsi per la campagna. Soli °in fila indiana, controsole sembrano ombre che inseguono altre ombre verso il bivio di Scordia o in direzione di Militello Val di Catania, verso Caltagirone. E dall` altra parte le nigeriane seminude, con le calze a rete e i capelli biondo platino sotto gli ombrellini per ripararsi dal sole, che sono già tutte al lavoro sulla strada per Palagonia. Non è una prigione e non è un albergo questo accampamento che è luogo di pace per alcuni e di sofferenza per molti altri, schiavi e schiavisti, come quei due eritrei che avevano il loro quartiere generale del malaffare proprio qui al Cara. La polizia li ha arrestati ieri l`altro Gurum Miluhbar e Goitam Netsai, «eritrei nati il 4/4/1974 e l`11/1/979, entrambi domiciliati presso il residence degli Aranci di Mineo». Domiciliati. Suggestivo come linguaggio burocratico. Loro facevano anche entrare clandestinamente altri migranti qui dentro - che prelevavano da ogni provincia della Sicilia- e poi li spremevano, li dissanguavano, prima difarliripartire per il nord Italia e lier l`Europa. Una cosca, tutta interna. Mafia eritrea. Piccola mafia, spiccioli al confronto degli interessi e della puzza di Mafia Capitale arrivata fin qui con quegli appalti milionari pilotati dall`«insospettabile» Luca Odevaine, quello che ha tre o quattro nomi e che faceva politica in Campidoglio. Altri maneggi hanno portato guai anche a Giuseppe Castiglione, grande amico di Angelino Alfano e sottosegretario del governo Renzi.

«Ministero dell`Interno», c`è scritto sul grande cartello-rassicurazione o minaccia?- davanti alla sbarra di ferro che porta all`accampamento. «Campu», lo chiama Emanuel, un ganiano che esce alla mattina alle otto e torna di sera alle otto: «Rientro sempre, non so dove andare, faccio ogni giorno la stessa strada, avanti e indietro, avanti e indietro». Avanti e indietro. Avanti e indietro come abbiamo fatto noi dalle 8 del mattino - proprio come Emanuel - per provare a raccontarvi cos`è il Cara di Mineo, deposito di carne umana preferibilmente nera, obbligatoriamente da sbarco, necessariamente da ospitare. Questa zona della Sicilia fra la piana di Catania e la parte occidentale dei Monti Iblei comprende una quindicina di comuni e si chiama Calatino. Ci sono manifesti dappertutto, dentro e fuori dal Cara di Mineo. Sono tutti uguali: «Calatino terra di accoglienza».

Pubblicato: Mercoledì, 22 Aprile 2015 13:00

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