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Notizie

Morti nelle mani dello Stato

Aldrovandi 1Il Garantista, 03-02-2015
Maria Brucale

La notte del 25 settembre 2005, Federico Aldrovandi sta tornando a casa dopo una serata con gli amici. In quegli stessi minuti, la pattuglia ”Alfa 3”, con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri si imbatte nel giovane. Federico viene definito un «invasato violento in evidente stato di agitazione».
Vengono chiamati i rinforzi. Dopo poco tempo arriva la volante ”Alfa 2”, con a bordo Paolo Forlani e Monica Segatto. Lo scontro tra i quattro poliziotti e il giovane è molto violento. Due manganelli vengono spezzati sul corpo di Federico. Muore: «asfissia da posizione», con il torace schiacciato sull’asfalto dalle ginocchia dei poliziotti, a lungo.

All’arrivo sul posto il personale del 118 trovava il paziente «riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena [...] era incosciente e non rispondeva». L’intervento si conclude, dopo numerosi tentativi di rianimazione cardiopolmonare, con la constatazione sul posto della morte per «arresto cardiorespiratorio e trauma cranicofacciale ».
Il 6 luglio 2009 i quattro poliziotti vengono condannati in primo grado a 3 anni e 6 mesi di reclusione, per «eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi». La condanna viene confermata in Cassazione. I poliziotti che hanno ucciso Federico indossano ancora una divisa.

È il 14 giugno 2008, Giuseppe Uva, 43 anni, di Varese, insieme ad un amico, per gioco, per aver bevuto un po’, sposta delle transenne che interrompono una strada. Arrivano i carabinieri, poco dopo anche due poliziotti e portano i due in caserma. Li separano. Passano tre interminabili ore. Giuseppe viene poi trasportato nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Varese, con la richiesta di trattamento sanitario obbligatorio. Muore.
Dagli esami tossicologici risultano somministrati farmaci controindicati in caso di assunzione di alcool. Il corpo di Giuseppe è martoriato da botte e lividi, fratture alla colonna vertebrale, forse una sigaretta spenta sul viso e tantissimo sangue. Si apre uno scenario di violenze e di orrore. Dopo anni di silenzi e di negligenze investigative, il processo è finalmente iniziato ma sono già passati quasi sette anni!

Stefano Cucchi muore 31 anni in custodia cautelare. Il 15 ottobre 2009 viene fermato dalla polizia dopo essere stato visto cedere a un uomo delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota. Già durante il processo ha difficoltà a camminare e a parlare e mostra evidenti ematomi attorno agli occhi.
Dalle celle del Tribunale, al carcere di Regina Coeli, al Fatebenefratelli, ancora al carcere e, infine, alla struttura detentiva dell’ospedale Sandro Pertini dove Stefano muore, il 22 ottobre 2009. Ha perso sei chili, è disidratato e denutrito. Il suo corpo porta i segni orribili di un martirio.
La Corte di Assise di Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati: sei medici, tre infermieri, tre agenti della polizia penitenziaria. Mancanza di prove. Disposte nuove indagini ma ancora contro ignoti.

Michele Ferrulli, di 51 anni, il 30 giugno 2011 subisce un fermo di polizia sotto la sua abitazione, in via Varsavia a Milano. Si trovava in compagnia di due amici. Ascoltavano musica, chiacchieravano e bevevano birra. Erano le 21.30 quando i poliziotti intervengono, chiamati da qualcuno infastidito dal suono dello stereo.
Secondo quanto riferiscono alcuni testimoni, Ferrulli risponde pacatamente alle domande degli agenti e fornisce loro i documenti. In pochi attimi, il clima si scalda, Michele Ferrulli viene immobilizzato, ammanettato e buttato a terra. I video acquisiti dalla Procura mostrano come Ferrulli, sia stato colpito più volte con calci e pugni.

Il processo, con una imputazione di omicidio preterintenzionale, si è concluso in primo grado il 02 luglio 2014. I giudici della prima Corte d’Assise di Milano hanno deciso di non dare seguito alla richiesta del pm, di condanna degli imputati a sette anni di reclusione. «Il fatto non sussiste». Gli agenti che hanno immobilizzato a terra Michele non sono responsabili della sua morte.

Dino Budroni muore la mattina di sabato 30 luglio del 2011, freddato da un colpo di calibro 9 sparato dall’agente scelto Michele Paone mentre lui era in macchina, sul Grande Raccordo Anulare, all’altezza dell’uscita Nomentana, dopo che polizia e carabinieri lo avevano inseguito per chilometri.

Inutile la corsa al Pertini. La macchina, una Ford Focus, era ferma davanti al guard rail. La prima marcia era inserita, il freno a mano tirato. Tutto dimostrava che l’auto era ferma quando il colpo mortale attingeva il corpo di Dino, già arreso, già inerme. Due spari. Uno colpiva la ruota, l’atro, esploso qualche secondo dopo, raggiungeva Dino al petto uccidendolo.
Tre anni dopo arriva la sentenza: Michele Paone viene assolto: «Il fatto non costituisce reato», legittimo l’uso delle armi. Morti, insieme a tanti altri senza nome, nelle mani dello Stato.

Pubblicato: Martedì, 03 Febbraio 2015 16:02

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