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Giustizia: reato di tortura? Cambiatelo, o sarà inutile
Il Garantista, 16 dicembre 2014
Michele Passione e Luciano Eusebi
Ecco le proposte per rendere più "europeo" il testo uscito dal Senato.
Ieri è scaduto il termine per la proposizione di emendamenti alla proposta di Legge 2168, approvata dal Senato il 5 marzo e trasmessa all'esame della commissione Giustizia della Camera. Chi scrive ha provato a dare un contributo al legislatore, affinché il dibattito che si svilupperà sul testo già licenziato in un ramo del Parlamento (quello che tutti vorrebbero modificare) non perda di vista quanto previsto nella Convenzione sulla Tortura (Cat), che abbiamo ratificato da più di due decenni non avendo all'epoca formulato riserve, senza peraltro essere ancora riusciti a introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura, l'unico richiesto in modo esplicito dalla Costituzione, ex articolo 13.
E' sufficiente porre a confronto il testo dell'articolo 1, e in particolare il primo comma, della Convenzione, con l'articolo 613-bis del codice penale, come approvato al Senato, per accorgersi che, all'evidenza, si sta parlando d'altro. E infatti, mentre il reato di tortura definito dalla Convenzione costituisce, com'è ovvio, un reato proprio, del funzionario dello Stato, che, approfittando dei poteri che gli sono legittimamente conferiti dall'ordinamento, mina alla radice la fiducia che i cittadini devono poter riporre nelle istituzioni, quello approvato da Palazzo Madama costituisce un reato comune, prevedendosi un'ipotesi aggravata se l'autore è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.
Un reato comune, per giunta, quanto mai carente circa la determinatezza delle condotte e, nel contempo, del tutto inadeguato rispetto alle più moderne ed efficaci tecniche di tortura, non riconducibili alle "violenze o minacce gravi" ivi contemplate (con un'ambiguità, fra l'altro, circa la previsione di tali termini al plurale): esso finirebbe per essere applicabile in contesti ben difficili da definirsi a priori, dal disvalore ben diverso rispetto alla tortura, non senza sovrapposizioni con l'ambito applicativo di altri reati. In particolare vengono inclusi in un'unica previsione i "trattamenti inumani e degradanti" e le condotte violente, laddove i primi, di cui all'articolo 3 della Convenzione europea dei Diritti dell'uomo, sono da sempre ritenuti distinti dagli atti di tortura, soprattutto sotto il profilo dei loro fini, dalla Corte di Strasburgo. Mentre non si ricomprende nell'ipotesi dell'istigazione quella riferita a soggetti non qualificati dal ruolo. Appare dunque necessario ridefinire l'illecito (secondo quanto previsto dalla stessa Convenzione del 1984) attraverso una struttura di "reato proprio" a dola specifico che dia rilievo alle finalità tipicamente perseguite con la tortura e attraverso un'esplicita previsione del carattere intenzionale del pregiudizio che si infligge per conseguire tali finalità; confondere i comportamenti di tortura in una gamma indefinita di condotte, aperta a letture arbitrarie, significherebbe non soltanto deflettere da indispensabili presupposti garantistici, ma altresì compromettere l'efficacia preventiva delle nuove norme.
Del resto, chi ancora ricorda le vicende giudiziarie di quanti subirono nella caserme le delizie de "l'algerina", chi non può dimenticare quanto accaduto alla Diaz, a Bolzaneto e nel carcere di Asti qualche anno fa, sa che la tortura non può essere altro da quel che è stato, oppure nessuno è Stato.
Del pari, non servono esasperazioni sanzionatone che impediscano di tener conto dei diversi possibili livelli di gravità delle condotte e degli apporti in sede di concorso, perseguendo intenti simbolici che tolgono autorevolezza al messaggio normativo. Non serve, dunque, prevedere una pena fissa (incostituzionale, essendo possibili scenari diversi della colpevolezza e dei fattori che incidono sul prodursi dei risultati lesivi), e addirittura di trent'anni, per il caso della morte prodottasi come effetto non voluto.
O escludere la valutazione del giudice circa le entità degli aumenti di pena previsti (in un contesto già problematico come quello dei delitti aggravati dall'evento), O rendere sproporzionati gli spazi edittali rispetto ad altri contesti, fino a escludere apriori, attraverso il livello della pena minima, che nel caso di apporti marginali possa evitarsi la detenzione. Non serve poi, in particolare, prevedere il caso dell'omicidio volontario del torturato, punendolo con l'ergastolo, e non solo perché ciò è già consentito attraverso le aggravanti comuni previste dal codice, ma soprattutto perché la previsione esplicita di un nuovo reato punito con la pena perpetua renderebbe difficile proporre allo stesso legislatore la messa in discussione del "fine pena mai", quale sanzione non conforme al senso di umanità, e costituzionalmente illegittima.
Sarebbe utile, invece, introdurre nel solco della Convenzione anche norme di prevenzione anticipata: per esempio relative alla formazione del personale di pubblica sicurezza o alla registrazione dei rapporti con persone private della libertà personale, ove non avvengano in presenza del magistrato. Sappiamo che tanti, anche persone amiche, temono che si perda anche questa occasione, e che molti pensano che "l'ottimo è nemico del bene".
Noi invece crediamo che l'attesa infinita non debba portare a introdurre una norma ibrida, vaga, viziata alla radice da un contrasto insanabile con la Convenzione del 1984, e dunque costituzionalmente viziata, ove fosse approvata senza emendamenti nel testo proveniente dal Senato. Per queste ragioni, un avvocato e un professore, un pratico e un teorico, hanno unito le forze, pensando fosse loro dovere mettere a servizio dello Stato una visione del Diritto laica, equa, efficace e democratica.
Fonte immagine: es.minghui.org