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Faccia a faccia tra la Br Grena e la figlia di Moro

libro incontro fLa Nuova Sardegna, 28 maggio 2017

di Daniela Paba

Dialogo tra Agnese e Grazia sul “Libro dell’incontro” Luigi Manconi: «Oltre il dolore per dargli un senso»

“Il Libro dell’incontro”, che è anche il libro del cambiamento, testimonia il percorso comune delle vittime del terrorismo insieme ai protagonisti della lotta armata. Un esperimento di giustizia riparativa, nato per «dare un senso al dolore» di entrambi, dimostrando che il dialogo è, non solo possibile, ma necessario. Uscito nel 2015 per il Saggiatore, il volume a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, che hanno svolto insieme ad altri come Gherardo Colombo il ruolo di mediatori tra le parti, è stato presentato alla Collina di don Ettore Cannavera, per “I Libri aiutano a leggere il mondo”. Protagonisti dell’esperienza sono arrivati nella sala della Comunità Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, ucciso dalle Br; Grazia Grena che, passata dalle Br attraverso molti gruppi armati, oggi aiuta gli ex carcerati a reinserirsi nella società; il giudice Gherardo Colombo e il senatore Luigi Manconi.

OLTRE L’ODIO. Un libro importante ha spiegato Manconi «perché capace di esprimere il dolore e la speranza, la sofferenza e l’idea di futuro, l’incredibile capacità di andare oltre il dolore per dargli un senso, come mi disse la vedova di un carabiniere ucciso da un ragazzo di 19 anni». Infatti se la prima reazione delle vittime è chiedere la pena più dura, assecondando il desiderio di vendetta, presto ci si rende conto che sapere l’assassino in carcere non sazia il bisogno di giustizia. Troppi perché senza risposta provocano nelle vittime un tormento che non trova ragione all’irrazionalità del male. E mentre il carcere produce sofferenza «l’incontro con la vittima consente l’emancipazione del criminale dal proprio crimine, produce una giustizia ristoratrice e crea nuova vitalità. Come se contribuisse a lenire le ferite a chi è costretto a vivere nel ricordo e nelle conseguenze di ciò che è accaduto». Lo dice bene Agnese Moro, diretta e implacabile ma anche capace di alleggerire con una battuta: «Perché una come me dovrebbe aver bisogno d’incontrare quelli che hanno ucciso suo padre? Perché credo si abbia il diritto stare meglio, di non restare immobili nel proprio dolore. La morte di mio padre è stata ingiusta, la risposta è un sentimento di odio, rancore, rabbia, impotenza, sfiducia. Avevo 25 anni, mio padre è rimasto vivo 55 giorni prima di essere ucciso. Ho vissuto allora l’indifferenza, il cinismo, l’abbandono: il mio cuore di ragazza era incasinato».

IPOTECA SUL FUTURO. Se il desiderio di giustizia ristabilisce l’equilibrio spezzato in modo arbitrario, «a me ’sta giustizia non è arrivata – spiega la figlia di Moro –, il cuore resta ferito. Vivi una dittatura del passato sul presente, un’ipoteca terribile sul futuro. Senti di avere dentro un orrore che si annida nei particolari che non saprò dire mai, un urlo che non puoi tirar fuori. Quando ho capito che quell’urlo inespresso era arrivato ai miei figli e rischiava di macchiare anche le loro vite, ho detto sì alla proposta di padre Bertagna che avevo rifiutato inizialmente».
Sono iniziate così una serie di sorprese che Agnese Moro riassume così: «Ho incontrato l’umanità di Bonisoli quando ho scoperto che chiedeva permessi dal carcere per andare ai colloqui dei figli; se prima il dolore era solo il mio ho scoperto il dolore degli altri che saranno per sempre degli assassini. Le vittime del terrorismo e dello stragismo rimangono sole per anni: vedere che delle persone impiegavano il loro tempo per dedicarsi alle mie sofferenze mi ha aiutato a sentirmi meno sola. Ho potuto rimproverarli, chiedere loro “Come hai potuto? Com’è che una mattina hai deciso mo vado e ammazzo il papà di Agnese”? Mio padre mi manca ogni giorno della mia vita ma ora quei pesi qualcuno può portarli con me».
Negli stessi anni Settanta Grazia Grena stava dall’altra parte.

RESPONSABILITÀ La sua prima parola è “responsabilità”: «Dissociazione per me è stata assunzione di responsabilità. Un percorso lungo, che non è mai stato indagato, portato avanti in modo collettivo con grande forza. Come quando hai avuto un grande sogno e d’improvviso ti svegli e dietro di te hai lasciato solo macerie. Dire pubblicamente che quel percorso era sbagliato, rompere con un passato doloroso e ingiusto ha permesso di generare nuove forze. Sono uscita dal carcere a fine pena nel 1986. Da allora aiuto gli altri carcerati a ricostruirsi una vita, è un modo per ridare speranza a chi ha commesso degli errori. Anch’io quando Claudia Mazzucato mi ha proposto l’incontro con le vittime ho detto “no, grazie”. Ma poi, come dice Agnese, noi quell’urlo l’abbiamo sentito. Mi è arrivato addosso e non avevo risposte. E quando ho detto: “Ma io non mi sento colpevole della morte di tuo padre perché non sono mai stata d’accordo con la sua uccisione”, lei ha risposto “Non eri d’accordo politicamente ma non hai mai pensato mio padre come persona”. Era vero, non avevo mai incontrato l’umanità delle vittime che sono più ricche di noi perché sono riuscite a restituirci l’umanità abbiamo tolto ai loro cari. Per questo non parliamo di perdono ma di riconoscimento: ci hanno guardato alla pari, abbiamo trovato un luogo dove ci hanno ascoltato nonostante noi. Claudia Mazzucato parla di una giustizia lenta che va a cucire ferite. Incontrare le vittime mi ha offerto altre possibilità: posso guardare chi ha commesso crimini efferati cercando in lui l’umanità che altri hanno trovato in me».

PENA E PERDONO. La forza del riconoscersi muove molte emozioni, è un ascolto con tutti i sensi che turba persino Gherardo Colombo: «Anch’io, a seguito di questa esperienza, ho subito un grande cambiamento. Per anni sono stato convinto dell’efficacia della punizione. È un’esigenza del genere umano rendere il male ricevuto. Così realizziamo una contraddizione clamorosa: siccome hai fatto il male devi subire il male. Partivo dalla teoria retributiva che s’insegna all’Università. Il problema è che così com’è fallisce.
Il 70% di chi esce dal carcere a fine pena commette nuovi reati e ci torna. Poi riflettendo sull’educazione e sulla Costituzione, che dice che abbiamo tutti la stessa dignità, per ciò che siamo e non per ciò che facciamo, la risposta non può che essere diversa da imporre sofferenza»

Pubblicato: Martedì, 30 Maggio 2017 12:14

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