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Notizie

Il divieto alla tortura come strumento di difesa globale

tortura 1Rocca, Maggio 2017

di Valentina Moro

Gennaio 2017. La stanza ovale della Casa Bianca è colma di giornalisti: tutti attendono Donald Trump per le prime dichiarazioni nelle nuove vesti di presidente americano. Dalle affermazioni che il multimiliardario conservatore rilascia alla stampa, è semplice intuire quali saranno le linee guida che tracceranno il suo mandato. Tra le discussioni più urgenti vi sono quelle concernenti il terrorismo e la sicurezza, in un momento storico in cui la minaccia dell'Isis attraversa e sconvolge l'intero pianeta. Trump è categorico: la tortura funziona, al sangue si risponde con il sangue.

Per chi studia questi fenomeni da anni è difficile non percepire un déjà-vu: riemergono così alla mente, per esempio, i racconti di alti graduati dell’esercito italiano che, negli anni settanta, torturarono a scopo estorsivo alcuni appartenenti alle Brigate Rosse. Anche in questo caso, infatti, si è tentato di giustificare l'azione delittuosa in nome della sicurezza nazionale. Se, dunque, in un’America che ha a lungo compiuto uno sforzo di democratizzazione si torna oggi ad avvalorare una pratica tanto barbara quanto cieca rispetto al valore imprescindibile degli human rights, in Italia quali progressi sono stati compiuti? Quale chiave interpretativa potremmo fornire oggi di quegli episodi in cui uomini dello Stato esercitano violenza su chi, di quello stesso Stato, è figlio? Nel tentativo di rintracciare una risposta, occorre ricordare che la tortura non assume solamente i caratteri del più noto “braccio della morte”, coinvolgendo invece privazioni, aspetti e tecniche sofisticatamente complesse. Inoltre, tutt’altro che immutabile, tale crimine internazionale si adatta con facilità ai cambiamenti che attraversano il contesto sociale.

In tale ottica, il carattere postmoderno della tortura potrebbe esser rintracciato nella sua rappresentazione mediatica: grazie ad Internet, alla fotografia digitale, ai nuovi e modernissimi mezzi di comunicazione, la percezione della sua esistenza raggiunge un pubblico sempre più vasto, portando con sé un bagaglio di brutture, storture e atrocità che sanno di antico in uno spazio che, invece, è vicinissimo. Non solo campi profughi o terre d’oriente, non solo guerre lontane o carceri turche: ci si accorge così che le barbarie parlano un linguaggio comune, abitano a pochi passi di noi, vestono spesso abiti di uomini ordinari e insospettabili. Dal G8 più noto della storia italiana – quello genovese del 2001 – sono trascorsi 15 anni, si sono avvicendati sette esecutivi, sei Presidenti del Consiglio, sei Ministri della Giustizia, 28 vittime “note” di violenza istituzionale.

Nel frattempo proclami, manifestazioni, petizioni, parole e buone intenzioni. Poi ancora: sindacati di polizia, applausi scroscianti, striscioni srotolati sotto palazzi comunali. Onorevoli che sostengono divise disonorate, associazioni che si battono per quei diritti che ancora ci rendono umani. Dei tanti Carlo Giovanardi che affollano le sedute pubbliche, ciò che più spaventa non sono le parole urlate ma i silenzi gridati. Per quel reato di tortura di cui ancora non disponiamo, per quel vuoto normativo che aspetta di esser colmato. Le storie di tante famiglie, dai volti ormai conosciuti, ci insegnano che tragedie simili sanno vestire i panni di un ospite sgradito che arriva così, bussando in piena notte alla porta di una casa. A volte basta essere nel posto sbagliato in un momento disgraziato ed eccoti lì, tra i titoli del Tg in prima serata. Perché, ora, di abuso di potere se ne parla di più, sembra esserci meno reverenza, maggiore informazione.

Le notizie, del resto, corrono veloci in Rete. Internet è una finestra aperta sulle aule di giustizia, è archivio di perizie medico-legali, è luogo di incontro di voci contrastanti. Impossibile non farsi un’idea, neanche volendo. E poi ci sono quei casi che hanno saputo scuotere più di altri il telespettatore, che gli hanno fatto abbassare coltello e forchetta per alzare il volume del televisore. È un’epoca, questa, in cui ci si ritrova a tavola con il suono dei raid aerei in sottofondo, con le immagini della guerra in Siria, con i volti di popoli in cammino. Si riesce a deglutire di fronte al sangue che scorre, ai corpi che annegano, all’ennesimo femminicidio, al disabile picchiato. Eppure la forchetta si posa per quel corpo rachitico, livido e martoriato di Stefano Cucchi che giace sul tavolo dell’obitorio. Eccolo quel ragazzo che sembra tuo nipote, assomiglia a tuo figlio, ricorda vagamente tuo fratello. Con lui riecheggiano tutte le fragilità che connotano un’umanità ferita, corrotta, violata. È questo il caso mediatico che meglio rappresenta uno spartiacque di visibilità in storie che connotano l’abuso di potere. È una vicenda che ha saputo raccontare la tortura più quanto abbiano fatto i giorni di Genova.

Perché quanto accaduto durante il G8 del 2001 riusciva ancora ad esser strumentalizzato da chi fosse alla ricerca di una giustificazione indolore: sui giornali si parlava di contestatori di piazza, di violenti, di agenti in tensione, di complotto politico. Così è tutto più semplice, la dissonanza cognitiva si scioglie in un ricorrente «se la sono cercata». Lo stesso si è provato a dire di Gabriele Sandri, il tifoso morto per un colpo di pistola sparato da un agente di polizia. Ricordo ancora le voci che si accavallavano nei programmi radiofonici, nel giorno della morte. Si parlava di ultras, di curve violente ed indisciplinate. Sembrava quasi un dettaglio che Gabriele avesse perso la vita in una piazzola di sosta autostradale, mentre riposava a bordo della sua auto. Sul caso Cucchi è più difficile rintracciare argomentazioni altre rispetto all’evidenza che si impone: un essere umano che entra in un carcere e ne esce una settimana dopo, con 20 chili in meno e un corpo martoriato.

Quante sono le scale su cui ha inciampato per ridursi così? Nonostante le parole spese sulla tossicodipendenza, sul passato difficile, sui tentativi falliti di recupero, quel corpo è lì, su quel tavolo metallico, senza vita eppure eloquente poiché straziato e straziante. Quei lividi e quell’espressione contrita sembrano render visibile quel che, invece, è stato reso invisibile ad ogni costo. Nessuno doveva vedere al fine di non sapere. Eppure Stefano, senza volerlo, ha avviato un dibattito di un senso elevatissimo, profondissimo, urgentissimo. Dopo di lui, anche casi avvenuti precedentemente hanno ottenuto una risonanza maggiore. E non è un caso, a mio avviso, se la triste vicenda di Riccardo Magherini – il giovane fiorentino morto in strada, tra le gambe calcianti di quattro Carabinieri – si sia imposta all’attenzione dell’opinione pubblica in tempi rapidi, se tanti giovani cittadini abbiano vinto il timore di testimoniare contro quattro uomini in divisa.

Ecco, dunque, il valore della denuncia sociale, del racconto, della testimonianza. Occorre educare la collettività alla tutela, all’attenzione, allo sguardo vigile in grado di curare. E questo si realizza nel momento in cui si smette di archiviare in un angolo remoto dello spazio sociale tutto ciò che riteniamo non ci possa riguardare. Troppo spesso e in troppe storie, infatti, si è utilizzato l’espediente dell’infermità, della debolezza, della diversità delle vittime per giustificare gli abusi perpetrati dalle forze dell’ordine. Ma più che espedienti, questi appaiono aggravanti: se lo Stato ha il dovere di preservare l’incolumità di ogni suo cittadino, detiene allora l’obbligo morale di proteggere gli anelli più deboli del suo complesso ma preziosissimo ingranaggio sociale.

Pubblicato: Venerdì, 19 Maggio 2017 15:05

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