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Siate sinceri: volete solo che le navi Ong smettano di salvare vite
Huffington Post, 27 aprile 2017
di Luigi Manconi
"Dovremmo lasciarli morire in mare": più monta l'operazione di stigmatizzazione e colpevolizzazione nei confronti delle Ong che salvano vite umane nel Mediterraneo, più chiaramente prende forma questo truce sottotesto. Ma si tratta di una deduzione implicita, suggerita sotto voce e non rivendicata, perché nessuno ha avuto ancora il coraggio di arrivare in fondo al ragionamento (oddio, qualcuno ci va molto, ma molto vicino). Perché, se l'impianto accusatorio (ancora non supportato da alcun elemento di prova emerso dalle indagini conoscitive in corso e da quelle giudiziarie chiassosamente annunciate) intende processare l'operato di una decina di organizzazioni impegnate a salvare vite, l'obiettivo sembra essere comunque che quelle navi smettano di operare. E, con esse, si interrompa anche l'attività dei nostri militari.
Solo così si fermerebbe l'invasione: facendo morire in mare i migranti verrebbero a estinguersi gli stessi invasori. Oplà, il gioco è fatto. O, in ogni caso, si vorrebbe se non fermare, rendere assai più difficile il lavoro di quelle navi perché la loro presenza dà in qualche modo fastidio.
Ma su quali elementi si basa l'impianto accusatorio nel pubblico processo a cui stiamo assistendo? Innanzitutto, da un rapporto di Frontex che accenna ad alcune conseguenze non volute ("unintended consequences"), ad effetti involontariamente avversi che coinvolgerebbero la presenza delle navi militari e di quelle delle Ong e il loro aumento nel corso del 2016, a poche miglia dal limite delle acque libiche.
Effetti che porterebbero entrambe queste categorie di navi (quelle militari e quelle delle ONG) a essere l'obiettivo più agevolmente raggiungibile da parte dei migranti. E resta il fatto - inequivocabile- che il cosiddetto pull factor, di cui si è parlato fin dai tempi di Mare Nostrum, viene considerato dagli stessi soggetti militari un elemento secondario rispetto a quel push factor, ben maggiore e inarrestabile, che induce migliaia e migliaia di persone a lasciare la propria terra.
D'altra parte, finora, a quanto dichiarato dalle stesse Ong, nessuna contestazione nel merito dell'operato in mare è stata avanzata dall'agenzia europea né da procure italiane, nonostante le molte vibranti dichiarazioni.
Vi sono poi accuse più fumose, formulate in maniera sempre molto vaga, che tendono a colpire e diffamare le organizzazioni; e dietro quelle accuse si intravedono le sagome di quanti sono alla ricerca di consensi elettorali. Per non parlare di finanziamenti molto sospetti da parte di alcune oscure entità finanziare legate ai grandi trafficanti di esseri umani.
A tutto questo improbabile castello di accuse hanno risposto puntualmente non solo i rappresentanti delle Ong, ma soprattutto gli alti ufficiali responsabili delle diverse missioni italiane ed europee nel Mediterraneo, fugando ogni dubbio su quanto avviene in mare e ribadendo l'esistenza di un meccanismo ben coordinato e controllato nei suoi diversi ambiti, nel rispetto del diritto internazionale del mare.
Rimane dunque da capire perché, a livello delle istituzioni europee, si è tardato così tanto prima di smentire illazioni e interpretazioni malevole e assai pericolose. Finalmente ieri, Frans Timmermans - vicepresidente della Commissione europea - ha affermato che "non c'è alcun tipo di prova che le Ong lavorino con organizzazioni criminali" e, ancora, che quelle stesse organizzazioni "sono un asset prezioso perché, specie in materia di immigrazione, fanno quello che i governi per ragioni politiche non sono in grado di fare". Poi, certamente vanno indagate le possibili ombre che l'attività di soccorso può suscitare, va incentivata la massima trasparenza e vanno stabilite regole condivise: non contro le organizzazioni, ma a loro stessa tutela.
D'altra parte, oltre a salvare vite umane, c'è un'altra attività che quelle navi garantiscono: la loro presenza consente di conoscere da vicino e nei dettagli più dolorosi le storie dei migranti salvati. Grazie a loro, abbiamo informazioni preziose su quanto accade in Libia e sappiamo con più precisione, in caso di naufragi, quale sia il numero delle vittime. Ed è ancora grazie a loro che nel Mediterraneo ci sono più occhi che permettono di dare volti e storie a quelle migliaia di numeri a cui siamo ormai abituati. Ci aiutano a non dimenticare che i flussi migratori coinvolgono innanzitutto persone alle quali non è concessa altra possibilità di futuro se non quella che passa attraverso i rischiosissimi viaggi per mare.
E pongono davanti agli occhi di tutti noi il fallimento delle scelte politiche di chiusura e di esclusione dei governi europei. Infine, questa vicenda permette di misurare la distanza incolmabile tra le tragedie umane con tutte le loro sofferenze, e le costruzioni mitologiche che vi si edificano sopra. E, infatti, ecco spiattellata - e come poteva mancare? - tutta la paccottiglia maleodorante del complottismo più cupo, fatto di "non è certo un caso che" e di "singolari coincidenze", di connection sovranazionali e di oscure lobby, di circoli massonici e di speculatori senza scrupoli.
Uno scenario da b-movie e da thriller da edicola ferroviaria, dove il Gran Cattivo tesse le sue tele criminali e dove gli scafisti più feroci e i volontari più disinteressati si confondono, si sovrappongono, si alimentano reciprocamente. Paccottiglia un po' sordida, appunto, ma che sembra fatta apposta per soddisfare quella voglia di sfregiare le imprese più meritevoli e di sfigurare i progetti umanitari più urgenti.