Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorare la tua esperienza e offrire servizi in linea con le tue preferenze. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie vai alla sezione

Home a buon diritto

Notizie

Siamo scienziati, chiediamo asilo

immigrati 2L'Espreso, 31-03-2017
Giovanni Tomasin

Scappati da Siria, Libia, Afghanistan. Sono i profughi che gli istituti di ricerca e 
le università si contendono

L’Egeo nero si agita di fronte alla costa turca, Sahil guarda in tralice il gommone di pochi metri con cui dovrà navigarlo. Con lui ci sono una cinquantina di persone, tra cui donne, anziani e bambini. La traversata richiederà un paio d’ore. Al contrario di tanti, loro riusciranno ad approdare all’altra riva, in Europa. Oggi, a qualche anno di distanza, Sahil ricorda quel momento come il più difficile dell’odissea che l’ha portato dall’Afghanistan all’Italia.

La sua storia è simile a migliaia di altre e al contempo è diversa. Racconta un aspetto del grande esodo che contrasta con l’immagine dei migranti coltivata in Occidente. A meno di trent’anni, in Afghanistan, Sahil aveva in mano un master in economia finanziaria ed era il direttore di un programma di sviluppo agricolo che interessava una ventina di province in tutto il paese. Collaborando con realtà internazionali, ha attirato l’attenzione di un gruppo terroristico che intendeva reclutarlo come spia. «Io ho rifiutato», racconta. «Poi un giorno hanno cercato di uccidermi, crivellando di colpi la mia auto. Sono sopravvissuto ma ho capito che dovevo scappare».

Quel profugo è uno scienziato
È iniziato così un viaggio di quasi cinque mesi, conclusosi in Italia con oltre un anno di permanenza in un Cara, un centro per richiedenti asilo. Oggi Sahil vive in una località sicura, ma non vuole diffondere troppe informazioni su di sé: teme per la sicurezza della sua famiglia, rimasta in Afghanistan. «L’Italia è bellissima», dice, «ma tanta gente pensa che i rifugiati vengano in Occidente a cercare un lavoro. Noi ce l’avevamo una vita e un lavoro a casa nostra. Siamo dovuti scappare. E qui non siamo più nulla».

È impossibile calcolare il numero preciso degli esuli scienziati, ricercatori e accademici creati dai conflitti degli ultimi anni. Tra Siria, Iraq, Libia, Yemen, Afghanistan e altri paesi il numero è alto. Trieste ha da poco ospitato un convegno che ha mostrato questo volto dei migranti richiedenti asilo: “ Refugee Scientists: Transnational resources ”, organizzato dalla Twas (Accademia mondiale per l’avanzamento delle scienze nei paesi in via di sviluppo) in collaborazione con l’Istituto nazionale di oceanografia (Ogs), l’Università euromediterranea slovena di Pirano e l’Agenzia svedese di cooperazione allo sviluppo. Per una settimana ricercatori, accademici, rappresentanti delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali si sono confrontati sull’impatto delle guerre sul mondo scientifico. E sui loro colleghi costretti a fuggire.

Per James R. King, assistente direttore dell’Iie-Srf, un ente di New York che offre borse di studio a scienziati rifugiati, è «difficile dare numeri precisi». «Basti pensare che in Siria prima della guerra c’erano 10 mila accademici - spiega - e che oggi metà della popolazione del paese ha dovuto lasciare il luogo in cui viveva. La proporzione non sarà perfetta, ma rende l’idea». Molti di quegli accademici sono ora sfollati all’interno della Siria, vivono nei campi in Turchia oppure hanno imboccato la rotta balcanica.

Qualche fortunato è riuscito ad arrivare in Europa proprio grazie al suo ruolo accademico. Shifa Mathbout, siriana, oggi è parte del gruppo di climatologia dell’università di Barcellona. Studia l’impatto del cambiamento climatico sul Mediterraneo e gli effetti del calo delle precipitazioni. È arrivata in Europa nel 2012, dopo aver atteso il visto in Giordania e in Libano per mesi: «Sono andata via per due ragioni», racconta, «per proseguire la mia carriera accademica e per sopravvivere». Suo fratello è un oppositore politico del regime e ora vive da rifugiato in Svezia, assieme alla famiglia. Sebbene Shifa non fosse impegnata in politica, questo bastava per metterla in pericolo. Il programma Erasmus Mundus le ha consentito di arrivare in Europa. I suoi genitori sono rimasti in Siria, a Latakia: «Non vedo la mia città e mio padre da cinque anni», racconta.

«Mia madre è venuta a trovarmi una volta in Spagna. All’aeroporto di Barcellona l’hanno interrogata per ore, prima di lasciarla andare». Secondo le statistiche solo una minima parte dei 65 milioni di rifugiati dispersi nel mondo vive in paesi occidentali. Questo vale anche per gli scienziati. La yemenita Eqbal Dauqan è una chimica convertitasi alle scienze del cibo e ora lavora in Malesia. Studia gli effetti benefici degli antiossidanti per conto dell’università: «Ho scelto la Malesia perché ero già stata lì, prima della guerra, per ragioni di studio».

Originaria della città di Taiz, non ha avuto altra scelta che la fuga: «Quando il conflitto è iniziato la zona dell’ateneo è stata colpita per prima. Poi anche la via da casa al lavoro si è fatta pericolosa, fino a quando io e la mia famiglia abbiamo lasciato la nostra casa per trasferirci fuori dal centro. Un mese dopo è stata colpita da un missile e ora non esiste più». Espatriare è stata una scelta obbligata: lo stipendio malese di Eqbal è una fonte di sopravvivenza per tutta la sua famiglia. Suo padre, suo fratello e sua sorella, rimasti in Yemen, sono tutti dipendenti pubblici e da tempo non percepiscono più la paga. «Anche se volessi tornare rischierei la vita. L’unico aeroporto aperto in tutto il paese è lontano da Taiz, non avrei certezza di arrivare viva dalla mia famiglia». Al momento, aggiunge, non è rifugiata: «Sono docente ospite. Ma fra un anno scadrà il mio contratto e, se non riuscirò ad averne un altro, dovrò chiedere asilo come è successo a molti ricercatori miei connazionali».

Altri sono diventati profughi pur vivendo all’estero già da molti anni. Il siriano Nader Akkad è arrivato a Trieste negli anni Novanta per studiare all’Ictp, il Centro internazionale di fisica teorica fondato dal premio Nobel pakistano Abdus Salam: «Il professor Salam era il primo Nobel musulmano», racconta Nader, «per noi giovani scienziati dei paesi islamici poter studiare con lui era un sogno».

In Italia Nader ha ottenuto diversi master e un dottorato in ingegneria sismica: «Islam e scienza sono in sintonia», dice, «Secondo un hadith gli scienziati saranno gli eredi dei profeti». Membro dell’Unione delle comunità islamiche, come imam è intervenuto condannando il terrorismo ai funerali di Valeria Solesin, la giovane vittima italiana della strage del Bataclan di Parigi. «Tecnicamente oggi sono un profugo», racconta». «Perché la mia città, Aleppo, è stata distrutta dalla guerra e non potrei tornarci nemmeno se volessi. Nel 2012 sono riuscito a portare in Italia i miei genitori. Ci siamo affidati a un passeur che li ha fatti fuggire attraverso un tunnel. Hanno dovuto attraversare quattro linee di cecchini, abbiamo rischiato grosso».

Tra gli ospiti di Trieste c’era anche Radwan Ziadeh, analista dell’Arab Center di Washington. Siriano, ha dovuto lasciare il suo paese ben prima della rivoluzione e della guerra. «In Siria lavoravo come chirurgo in un ospedale. Nel 2001 sono stato licenziato perché avevo iniziato a operare nel campo dei diritti umani, agli occhi dello Stato ero un “pericolo per la sicurezza nazionale”».

Dal 2007 si è trasferito negli Usa, dove opera per far conoscere gli orrori della guerra civile. Ha testimoniato due volte al Consiglio per i diritti umani dell’Onu a Ginevra. «La questione degli scienziati rifugiati è fondamentale», dice. «Secondo alcuni calcoli almeno 7mila medici siriani lavorano oggi negli Usa. Pensiamo agli effetti che il travel ban può avere in un quadro simile». Per Ziadeh «le organizzazioni internazionali sono un ponte che consente agli scienziati di trovare un ambiente in cui proseguire le ricerche anche dopo l’esilio. Bisogna dare loro sostegno e al contempo dare valore alle storie dei rifugiati».

Nel frattempo Sahil guarda il mare che l’ha portato in Europa. «Gli scienziati rifugiati sono come alberi già maturi, pieni di frutti. Possono dare molto ai paesi che li ospitano». Altrimenti non resta loro che una vita sospesa nel limbo. «Quando sei nella mia condizione tutti i tuoi sogni cadono a pezzi. Puoi solo sentire i giorni accumularsi uno sull’altro».

Pubblicato: Venerdì, 31 Marzo 2017 10:51

Citrino visual&design Studio  fecit in a.d. MMXIV