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Notizie

Il nuovo Steve Jobs coltiva marijuana

art corr 2 febCorriere.it, 02-02-2017
Davide Frattini

Sempre più giovani si lanciano nel business dell’erba terapeutica negli Usa

Pubblichiamo uno dei testi apparsi su Futura, la newsletter del «Corriere» dedicata alle nostre identità mutevoli, che potete ricevere gratuitamente nella vostra casella di posta elettronica ogni venerdì alle 12. Per iscriversi basta inserire l’email qui.

La marijuana mi rende paranoico, così la evito. Sono circondato da amici che invece la cercano e quasi sempre la trovano. A Tel Aviv, dove vivo e lavoro, è illegale il consumo che gli americani chiamano ricreativo: in pochi qui se ne preoccupano, salvo ammonirsi a vicenda «ze lò Amsterdam», «questa non è Amsterdam» in ebraico, pronunciato con un sospiro prima di aspirare. Israele non è l’Olanda appunto ma è il secondo Paese al mondo nella distribuzione dell’erba terapeutica, oltre 400 chili al mese per 18 mila pazienti: basta la ricetta scritta da un medico autorizzato, basta lamentarsi del mal di schiena che non lascia dormire o dell’ansia per la Sindrome da disordine postraumatico, molto diffusa in una nazione da sempre in guerra. A fine marzo gli innovatori, inventori, investitori di un mercato ormai globale — solo negli Stati Uniti vale già 7,1 miliardi di dollari — si ritrovano a Tel Aviv per la fiera Cannatech. Per noi italiani ha un’assonanza immediata, per gli organizzatori è solo l’abbreviazione di Cannabis.

E di Cannabis medicinale — come coltivarla, impacchettarla, rivenderla — mi trovo a parlare seduto al bancone del bar con i cercatori seriali della prossima-cosa-grande che fino a pochi mesi fa mi avrebbero elencato i punti forti del loro «business plan per lanciare un’altra start up». La California degli anni Ottanta doveva essere così. Adesso discutiamo di serre riscaldate al posto del garage dei due Steve (Jobs e Wozniak), le luci ultraviolette per illuminare le piantine 24 ore su 24 molto più potenti dei led da personal computer, «Hello Weed» sostituisce quell’«Hello World» che Jobs pretendeva il suo Mac gridasse in faccia al mondo. Due amici — israeliani con cittadinanza americana, indispensabile per ottenere la licenza — stanno progettando di trasferirsi in Oregon o a San Francisco, sancendo così l’evoluzione del capitalismo avanzato dalla Silicon Valley alla Napa Valley (dove i tecno-milionari producono vino da bere tra di loro) alla Ganja Valley.

L’Oregon sembra la prima scelta: costa meno e — mi dice un altro amico che si nasconde tra le montagne a nord per provare a scrivere un romanzo — offre l’adrenalina della corsa all’oro, verde in questo caso. Sono tornati i tempi delle miniere improvvisate, revolver compresi. A Eugene — racconta — sembra di essere nel vecchio Far West, tranne che i saloon smerciano tisane e corsi di mindfulness: niente narcos per le strade. Le transazioni (pur legalizzate) sono tutte in contanti e gli agricoltori armati proteggono il bottino. L’idea di accumularne uno in proprio attira imprenditori-avventurieri come i due israeliani, stanchi di stare davanti a uno schermo, mezzi-bancarottieri in cerca di una seconda (terza, quarta...) opportunità. Io ascolto e qualche volta prendo appunti, mi faccio ripetere i passaggi burocratici e gli slanci affaristici, perché sull’idea che il mercato della marijuana terapeutica incarni — rinverdisca? — lo slogan di Jobs «Stay Foolish, Stay Hungry» vorrei scrivere il soggetto per un film o un libro, il titolo c’è: L’erbavoglio. La storia di quattro ragazzi italiani che finita Economia-Ingegneria-Matematica vogliono fare tanti soldi e in fretta. Tornano depressi, frustrati, annoiati dai colloqui di lavoro per entrare in qualche banca d’investimento. Sognano di creare l’app che vale milioni, finiscono con il viaggiare verso Sud per imparare a coltivare la canapa — fino agli anni Trenta l’Italia era il secondo produttore mondiale di quella da tessuti — e decidono di fondare in Puglia un’azienda, agricola sì ma innovativa. Ha per simbolo il geco, perché l’avido Gordon Gekko di Wall Street resta per loro un mito, anche in versione eco-compatibile. Comincerebbe così:

Non pisciare fuori dal vaso. Lascia il bagno più pulito di come l’hai trovato. Sul pavimento non c’è un incendio e quello che hai in mano non è un idrante. Questo cesso non è un albergo. «Sa qual è l’unica frase che mi colpisce? L’incendio. Perché noi le fiamme le alimentiamo, con il fuoco guadagniamo. Come? Pisciando fuori dal vaso. Il pitale che ci infilano nella testa fin da bambini, il limite da rispettare, l’ovale da non sforare. Ha capito? Noi siamo quelli che possono permettersi di innaffiare le piastrelle. Non qui però, qui stia attento, è il bagno privato del mio ufficio».

Io in realtà avevo già finito e pure richiuso la cerniera mentre lui allacciava un bottone dopo l’altro. Ci siamo salutati e stretti la mano, prima le ha lavate, immagino che l’elogio dell’urinare sregolato fosse il copione di tutti i colloqui più che una pratica aziendale. Sembravano asciutte anche le toilette condivise e impiegatizie, quelle che avrei dovuto cominciare a frequentare — non troppo spesso almeno nei primi mesi — se avessi accettato l’offerta di diventare uno scrollatore fuori controllo, uno che sa sbatacchiare i mercati quando gli altri restano immobilizzati dalla paura.

Pubblicato: Giovedì, 02 Febbraio 2017 11:20

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