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Se si chiudono in gabbia delle persone libere, ci si aspetti un'altra Cona
l'Huffington Post, 04-01-2017
Deborah Dirani
Prima o poi doveva succedere. Se chiudi in gabbia delle persone libere, se le metti in un acquario come pesci rossi vinti al luna park, gli butti il mangime e pensi che questo basti per ottenere la loro sempiterna gratitudine e la loro rassegnazione, prima o poi scopri che i pesci rossi sanno essere squali e che l'acquario non è posto per loro.
È successo a Cona, poteva succedere ovunque. Una ragazza di 25 anni muore dopo giorni in cui (dice il suo fidanzato) stava male e salta quell'equilibrio costruito sulla lama di un rasoio. Salta perché vivere in un Centro di Prima accoglienza non è esattamente come stare in un hotel stellato, nonostante le cialtronate qualunquiste che affiorano sulla bocca di troppa gente.
Vivere in un Centro di Prima accoglienza significa vivere dentro una polveriera dove la tensione è una costante, dove le regole sono dettate da qualcuno che non conosci e che non ti conosce, dove si finisce in gabbia, in fila come buoi da marchiare a fuoco, perché per mantenere l'ordine di questo mondo disordinato servono marchi ed etichette: rifugiato, profugo, richiedente asilo, clandestino.
Vivere in un Centro di Prima accoglienza significa avere un letto, un pranzo e una cena, qualche spicciolo e una partita di pallone. Significa dimenticare il principio della responsabilità in un meccanismo che ti riduce come un neonato a cui, si presuppone, basti mangiare e dormire per essere soddisfatto. Ma se non è così per un neonato (e non serve mica scomodare il Dottor Benjamin Spock) figurarsi se può esserlo per un adulto.
Corrispondere ai bisogni primari di una persona non è sufficiente, mi sembra chiaro. Non lo sarebbe per nessuno, nemmeno per chi sostiene che i migranti arrivino in Italia per vivere a sbafo. Compiuto il ciclo evolutivo da Neanderthal a Sapiens tocca prendere atto della realtà: un pezzo di pane e un materasso non bastano per eliminare la frustrazione di chi, fino a poco tempo fa, aveva avuto una vita normale, un lavoro, una famiglia, una casa.
Non dovrebbe essere difficile da capire: chi arriva in Italia dopo un viaggio che è più simile a un incubo che a una crociera sul Mediterraneo aveva un passato prima di saltare su un gommone mezzo sgonfio in cerca di un futuro. Ma che futuro è quello di un luogo in cui sei, di fatto, prigioniero e che, grazie alla tua fame, arricchisce molte pance già sufficientemente pingui?
Certo, si dirà, facciamo già tanto. Eppure non basta. Non è mai bastato e mai basterà nutrire un essere umano per farne un uomo. La realtà è questa e per quanto sia poco piacevole è lampante. Non occorre essere un avanzo di galera, un delinquente comune, un invasato o un tagliagole per dare di matto in una situazione estrema come quella che ci si trova a vivere in un Centro di Prima accoglienza dove le tue libertà sono limitate in cambio di pranzo cena e colazione.
Si può resistere un po', il tempo di rimettersi in forze, ma nessuno arriva qua, in una terra non sua, per non fare niente della propria vita. Chi attraversa, deserti, mare e, spesso, pallottole, lo fa in cerca di un futuro che contempli un lavoro, una casa e una famiglia. La sospensione dei desideri non può non avere una data di fine, così come non può non averla la permanenza in un posto che, a guardarlo bene, assomiglia più a un ghetto che a un albergo.
Ed è nei ghetti che nascono le rivolte e si insinua facilmente la prospettiva facile della criminalità. Basta una morte (per cause naturali) ritenuta ingiusta per scatenare un inferno di ostaggi e paura. Questa volta l'inferno si è placato e ha accettato di tornare a essere un purgatorio d'attesa. Non ha lasciato vittime sul selciato. È andata di lusso, ma non sono sicura che alla prossima scintilla, in qualche altro Cpa, non scoppi un incendio di morti e feriti.
È un'ipotesi agghiacciante, ma con la quale dobbiamo fare i conti, perché la verità è che un Centro di Prima Accoglienza non è una soluzione a tempo indeterminato e quando lo diventa assomiglia troppo a una galera e i suoi ospiti a galeotti.
Disinnescare queste bombe a orologeria dovrebbe essere uno dei primi punti nell'agenda di chi governa questo Paese e, ancor più, in quelle dei Paesi membri dell'Unione Europea. Perché chi ha affrontato la morte alla ricerca della vita merita di avere una possibilità, libera, non blindata, di viverla.