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Migranti, le regole e la convivenza

art rep 4-1-17la Repuubblica, 04-01-2017
MASSIMO GIANNINI

A CONA non è morta solo la povera Sandrine Bakayoko, ivoriana di 25 anni che sognava un'altra vita e aspettava un pezzo di carta che le permettesse di viverla. Questo paesotto a due passi da Venezia è anche la tomba nella quale l'Occidente impaurito seppellisce i suoi valori. La dignità e la solidarietà, prima di tutto. Ma poi anche la sicurezza e la legalità. Far convivere i diversi, in qualche caso addirittura gli opposti, è la sfida che le democrazie del nostro tempo stanno perdendo. Aggrediti dal terrorismo jihadista, assediati dalle migrazioni bibliche, non riusciamo a trasformare lo stato d'eccezione in Stato di diritto. Non sappiamo esaudire la speranza di chi arriva, non riusciamo a lenire la paura di chi accoglie.

Governare questo caos (che è insieme emotivo e amministrativo, culturale ed esistenziale) richiederebbe una credibilità e una responsabilità che la politica in questo momento non sembra in grado di esprimere. L'Europa è prigioniera degli egoismi nazionali e dei tecnicismi comunitari, del ciclo elettorale franco-tedesco e del ricatto morale turco. L'Italia è bloccata dal vacuo "elitismo inclusivo" della sinistra multiculturale (che sussurra il politicamente corretto seduta in poltrona) e il feroce populismo xenofobo della destra grillo-leghista (che urla trasversalmente la rabbia covata in periferia).

Trovare una via di mezzo tra gli "opposti estremismi" sarebbe la necessaria, doverosa fatica della democrazia. A partire da un'evidenza, che non si può più eludere ma si deve solo condividere: l'immigrazione è ormai il fenomeno a più alta intensità politica e a più alto impatto sociale che le civiltà moderne hanno di fronte. Per le sue difficili implicazioni sulle nostre vite quotidiane, oltre che su quelle dei disperati che bussano alle nostre porte. Per le sue delicate connessioni con il mondo islamico, oltre che con la minaccia del Califfo Nero che semina morte nelle nostre città. Dunque, va affrontato come tale. E noi non lo stiamo facendo.

Il nostro primo dovere è l'accoglienza per chi la chiede e la merita. La stiamo garantendo? Nel modo peggiore. Il caso del Cpa di Cona (dove sono esplose già tre grandi proteste in un anno) ci dice che il sistema non funziona. Non dà certezze ai richiedenti asilo e non dà sicurezze ai cittadini italiani che convivono con i centri. Il 2016 è stato l'anno record: stiamo accogliendo 172 mila migranti. Sulla carta, li riceviamo in 4 hotspot per il riconoscimento e la fotosegnalazione (pochi, e tutti al Sud). Poi comincia l'inferno. Il 14% lo assorbono come possono i comuni (negli Sprar, le uniche strutture che finora hanno funzionato). Il 10% lo smista il Viminale. In una dozzina di Centri di accoglienza richiedenti asilo (i Cara, che non bastano perché i tempi per smaltire le richieste d'asilo superano l'anno e le commissioni decidenti sono appena quattro). In otto Centri di prima accoglienza (i Cpa come quello di Cona, che stanno esplodendo). In tre Centri di identificazione ed espulsione (i Cie, vere e proprie galere).

Il resto, quasi l'80%, finisce nelle strutture temporanee gestite dai prefetti (gli hotel, gli ostelli, i camping, per i quali non esiste nemmeno un censimento ufficiale). Quest'anno, su 30 mila domande d'asilo, ne abbiamo esitate solo 5 mila. In questo girone dantesco, la percentuale dei migranti che si perde (o perché non si fa identificare o perché scappa dai centri e si dà alla macchia) è tuttora incalcolata e incalcolabile.

Il nostro secondo dovere è rimandare indietro chi non ha diritto o non merita di restare. Lo stiamo facendo? In modo insufficiente. Tra il 1998 e il 2016, sui circa 200 mila stranieri transitati per i Cie solo il 46% è stato rimpatriato. Nell'ultimo anno la quota è scesa sotto al 10% (in Gran Bretagna raggiunge il 62%, in Svezia il 59%). Perché non lo facciamo? In parte per le insufficienze e i ritardi del sistema, di cui abbiamo detto. In parte ancora più significativa, per la totale mancanza o la scarsa cogenza di accordi bilaterali con i Paesi presso i quali dovremmo effettuare i rimpatri. Qualche paese collabora (Nigeria, Egitto). Molti altri non ne vogliono sapere (Ciad, Niger).

È in questo buco nero che precipita il nostro terzo dovere, cioè la libertà e la tranquillità di noi italiani che dobbiamo accogliere. Impoveriti e a nostra volta sradicati da una crisi globale che brucia reddito e lavoro, erode il Welfare e distrugge l'identità, i "penultimi" di casa nostra scontano una pericolosa convivenza con gli "ultimi" arrivati da lontano. Costretti a fuggire, a vivere ai margini in un "altrove" fatto di miseria e di sfruttamento, e spesso a delinquere. E così a mettere a repentaglio le estreme, residue certezze di chi, "in patria", vive ai margini già di suo. Sono angosce che non vanno demonizzate, e meno che mai cavalcate.

Andrebbero semplicemente capite. E se possibile risolte. Con i fatti, non con parole vuote, appelli buonisti da sinistra o slogan bellicisti da destra. Qui torniamo al tema: servirebbe una politica. Non lo è il rituale "tuono" padano di Salvini, che ripete uno stantio "con noi al governo centri chiusi ed espulsioni di massa", perché "i tagliagole dell'Isis arrivano sui barconi"? E che facciamo, allora? Li fermiamo in alto mare, per chiedere se vengono in pace o per farsi esplodere? E dove ci si arruola per la "guerra di religione"?

Non lo è il grido di battaglia di Grillo, che due ore dopo l'attentato al mercatino di Charlottenburg già sproloquiava: "Da domani espulsione di tutti gli irregolari". È proprio quel "da domani", che lascia agghiacciati. Quali migranti espelliamo, se ancora non sappiamo nemmeno chi sono o se lo sappiamo li teniamo parcheggiati un anno prima di fargli sapere se hanno diritto di restare? Come li rimandiamo via, se non sappiamo ancora da dove vengono e se non abbiamo accordi con i Paesi d'origine? Con i "voli piombati"? Da far atterrare in quale aeroporto?

L'esempio di Amri, l'attentatore di Berlino, è esemplare. È stato a lungo in Italia. Ha commesso reati. Si è radicalizzato in carcere. Non aveva diritto di restare. Gli abbiamo consegnato il decreto di espulsione. La Tunisia non ne ha voluto sapere. È sparito per due anni, per poi ricomparire con un Tir assassino in Germania, alla vigilia di Natale. Questa è la verità. Questo, purtroppo, è quello che succede nella vita reale, non nella blogosfera grillina dei "comici spaventati guerrieri" pronti a speculare un minuto dopo su qualunque tragedia, innescando l'inevitabile ma deprecabile equazione migrante=terrorista.

Ora c'è in campo Minniti con il capo della Polizia Gabrielli, e la circolare alle forze dell'ordine sull'accelerazione dei rimpatri, là dove possibile. I pentastellati esultano, considerandolo un copia-incolla del Grillo pensiero. Sbagliano. Quello del ministro degli Interni (a prescindere dalla sua efficacia, tutta da dimostrare) è un piano più articolato, nel quale c'è un'evidente accentuazione del profilo repressivo, ma si coglie anche il tentativo di coniugare la domanda securitaria degli italiani (che nessuno su questo giornale ha mai messo in discussione) con l'esigenza di integrare gli stranieri (che resta una necessità irrinunciabile per il Vecchio Continente). È giusto rafforzare la cooperazione internazionale con il Corno d'Africa, rinegoziare gli accordi con i Paesi del Mediterraneo, immaginare lavori socialmente utili per i richiedenti asilo in attesa di risposta.

Se faremo anche e soprattutto questo, la circolare Minniti avrà avuto un senso. In caso contrario, sarà solo un altro sparo nel buio. Un altro passo nella notte in cui si condanna a sprofondare la "Fortezza Europa".

Pubblicato: Mercoledì, 04 Gennaio 2017 12:50

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