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Un germoglio tra le sbarre: un libro e un convegno a Roma sul carcere

germoglio-sbarre

Huffington Post, 29 novembre 2016

di Giancarlo Capozzoli

"Un germoglio tra le sbarre" è il titolo di un libro sul carcere, che è stato presentato a Roma nei giorni scorsi e che ha rappresentato l'occasione di un incontro/convegno sul carcere presso la Sala dell'Istituto Santa Maria in Aquiro, del Senato della Repubblica.

A questo incontro hanno partecipato come relatori oltre ai due curatori del volume Angelica Artemisia Pedatella e Paolo Paparella, anche il Senatore Manconi, Marco Braghero, ricercatore presso la Jyvvaskyla Unversity in Finlandia, alcuni giornalisti televisivi, Giampaolo Cadalanu giornalista di La Repubblica e l'ispettore della polizia penitenziaria della III casa Fabrizio Collevecchio.

"Dal disagio personale al disagio sociale, tra carcere e libertà" è il sottotitolo di questo ulteriore e importante convegno, che è come detto ha preso spunto dal libro edito da Pioda Imagine Editore. Il libro è diviso in tre "celle", capitoli, e in ognuno si declina in maniera precisa e responsabile la dura realtà del carcere e dell'incontro di un gruppo di studenti del Convitto Nazionale e un gruppo di detenuti.

Incontro avvenuto proprio a partire dalla scrittura e dalla successiva/precedente riflessione su determinati argomenti, su cui questi due mondi altrimenti incomunicabili, hanno iniziato a confrontarsi. C'è da dire che questa determinazione che si è detta, di argomenti, sembra, appare, più una indeterminatezza spontanea, nel senso che gli argomenti più diversi sono emersi tra i due gruppi, in maniera del tutto spontanea, proprio a partire cioè da argomenti quotidiani, semplici, dati, immediati: lo sport, la cultura, lo studio, il tempo, la libertà.

Come può uno studente comprendere l'essenza della sua libertà nella indeterminatezza della sua giovane età? Come può un detenuto declinare l'essenza dei suoi limiti nella determinatezza delle sue condizioni, attuale di recluso e di partenza di escluso? Già solo per questo primo domandare immediato, un incontro su tale tema, mostra l'importanza del suo porsi e del suo fondarsi.

Da una parte, l'apertura degli studenti verso il mondo totalmente non-conosciuto della realtà del carcere e dei carcerati. Mondo escluso e "chiuso" in una rap-presentazione falsata, pre-giudicata, mis-conosciuta. Pre-giudicata perché sconosciuta. D'altra parte l'incontro dei detenuti (soggetti attivi di questo incontro) con il mondo aperto, innocente, benestante, borghese degli studenti superiori.

Studenti che hanno aperto l'incontro con il racconto di questi scambi epistolari, diffidenti prima, e poi sempre più socievoli, liberi, intimi, con i detenuti della Casa Circondariale di Rebibbia. Le parole che si sono imposte in questo scambio, nello sguardo e nelle parole raccontate da questi giovani studenti, hanno raccontano della sorpresa di questa esperienza e delle parole stesse che sono diventate l'oggetto di questo loro scriversi: il disagio inenarrabile. Il carcere. Il tempo. Il pregiudizio. La passione. E la libertà.

La declinazione di ognuno di questi paradigmi è stata per loro l'occasione di comprendere, capire e approfondire quello che è il mondo che scorre ai margini della realtà che essi (noi) stessi vivono. Quel mondo cioè che non si vede, ma c'è. Non si vede perché nascosto dietro l'alto muro del carcere. Non si vede perché è escluso prima e recluso, poi. Recluso ed escluso allo stesso tempo. Hanno imparato che il carcere è di coloro che lo abitano, i carcerati.

Hanno letto di questo loro tempo-non-tempo lasciato scorrere senza-senso. Hanno compreso nel profondo il senso dell'assenza di tempo, come assenza di una pro-gettualità, di un pro-getto, dunque come assenza di personalità, assenza di persona. Eppure i carcerati sono persone. Che persona è una persona senza un pro-getto proprio?

Hanno scoperto passioni e intuito l'importanza della parola e della irrinunciabilità della parola libertà.
Questi esperimenti, questi incontri oltre ad aprire la gabbia dell'anima dei detenuti reclusi, hanno questo aspetto che è davvero fondante e fondamentale: sensibilizzano l'altro, i giovani in questo esempio, rispetto a questioni che risulterebbero altrimenti distanti, lontane, dimenticate. Serve ad aprire gabbie, anche se solo quelle dello spirito.

Le parole di alcuni degli studenti presenti all'incontro hanno ben raccontato come questa esperienza di scriversi con un detenuto abbia fatto emergere anche in se stessi questioni fondamentali, per una fondazione nuova, quasi, del loro essere stessi come persone. Questioni che hanno a che fare con l'esistere e l'esistenza di ciascuno di loro, di noi, evidentemente.

Si è detto della importanza di un pro-gettarsi. Si è detto della essenza di questo tempo-non-tempo. Tempo sottratto, si potrebbe dire. Tempo tolto alla declinazione effettiva di affettività familiare. Tempo tolto a sessualità. Tempo sottratto che è isolamento dal mondo e dal mondo di tutti gli altri. Le parole di questi giovani studenti hanno mostrato il loro aver intuito e capito a fondo l'importanza del confronto con l'altro, il distante-da-sè, il diverso.

Lo hanno intuito, percepito e assimilato come arricchimento e crescita. Arricchimento di pensieri e di punti di vista. Non di soldi. Arricchimento non è diventare-più-ricchi, semplicemente. Questa parola assume e apre a nuovi significati, nuovi sensi. Nuove prospettive. Piccoli semi di una libertà nuova. Ricompresa. Riconquistata. Semi seminati nei ragazzi e nei ragazzi-detenuti. Seminati come occasione per liberarsi da pregiudizi, dunque.

Ed è il primo decisivo passo se si vuole rendere il carcere come luogo aperto, un luogo cioè, dove, nonostante il restringimento della libertà personale di uomini che hanno lacerato il loro rapporto con il resto del corpo sociale, il tempo non sia semplicemente non-tempo, sottratto, dunque, ma sia piuttosto l'occasione di quel riscatto, di quella rieducazione che la legge fondamentale dello Stato sancisce.

Ed è proprio a questa legge fondamentale che si rifà l'opera e l'agire quotidiano di uno degli ispettori di Rebibbia, L'ispettore Collevecchio, il quale ha ideato, messo in opera, e costruito un gruppo musicale di detenuti, agenti e volontari esterni. Attraverso la pratica musicale, attraverso la passione per la musica, attraverso accordi e disaccordi non solo musicali, quotidianamente, mette in atto quella comprensione, quella accettazione, quella inclusione di cui sto dicendo.

Il carcere visto in questo modo non è più una vendetta contro chi ha agito contro la legge. Non può essere una vendetta. Deve piuttosto, se e quando necessario, tendere quanto più alla riparazione del tessuto sociale lacerato dalla commissione del reato. Recupero che è anche un riassestamento della dignità della persona che può e deve partire, prendere le mosse dalla cooperazione delle persone in questa relazione: vittima e colpevole, innanzitutto. A partire dall'ascolto reciproco.

L'intervento finale del senatore Manconi ha proprio messo in evidenza la relazione tra ascolto, dialogo e comunicazione. Ciò che la comunicazione "reale" deve contribuire a dare è tentare, almeno, di dire ciò che il carcere è davvero al fine di squarciare quel velo di ipocrisia e finzione che circonda questo mondo come un ulteriore muro di cinta.

La comunicazione, l'informazione ha il compito di indirizzare il senso comune, il sentire comune, l'opinione corrente verso la realtà data del carcere. Libri e esperienze come questo convegno sono perciò determinati in questo senso. Dicono qualcosa di un mondo di cui non si sa davvero nulla, o poco e male e in maniera davvero superficiale.

È necessario stabilire un rapporto, una relazione tra il dentro e il fuori del carcere, come con gli studenti di cui si è detto. È necessario dire di questo dentro, di cosa significhi realmente, crudelmente, quotidianamente stare esclusi, reclusi e costretti. È necessario provare a raccontare, a dire di questo stare stretti, in sovrannumero in pochi metri quadrati. La comunicazione è tutto, evidentemente. O molto.

La comunicazione è molto anche per chi, i detenuti, raccontano la loro storia disegnandola sulla propria pelle. I tatuaggi raccontati da Manconi diventano allora, e lo sono davvero, simboli di identità e di appartenenza. Ma sono anche la forma immediata di espressione e comunicazione per chi sa comunicare poco. Per chi è poco alfabetizzato. O quasi. Questo aspetto del comunicare è un aspetto determinante.

Basti pensare all'episodio, richiamato dal Senatore, dei migranti che, nel Cie di Ponte Galeria, alle porte di Roma, si cucirono le bocche in segno di protesta, vista la impossibilità di farsi sentire, di dire parole. Cucirsi la bocca per privarsi della capacità di dire parole. Ecco: il carcere è l' orrore di episodi di questo genere, frequenti e innumerevoli.

Il carcere è un non-luogo in un non-tempo, per usare le parole del Senatore. Una doppia negazione che nega la persona stessa del carcerato. Un non-luogo dove è bene ripeterlo gli atti di autolesionismo sono quotidiani. Un non-luogo in un non-tempo che è assenza-di-essere. E spossessamento di capacità individuali a partire da quella del comunicare.

Scrivere e raccontare di carcere è allora fondamentale al fin di limitare questo sentimento di ostilità verso questo mondo. Raccontare serve a guardare più da vicino per contribuire ad abbatterne la separatezza.

Pubblicato: Mercoledì, 30 Novembre 2016 17:43

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