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Notizie

Il fattore tempo per uscire dalla crisi

LampedusaLa Stampa, 18-07-2016
Massimo Vincenzi

Il pendolo dei luoghi comuni di quella tragedia umana chiamata questione migranti sbatte e finalmente si arresta contro la realtà. La speculazione politica, che da sempre accompagna l’emergenza con banalità assortite (e bipartisan), deve fare i conti con la vita quotidiana delle nostre città. Da Roma a Verbania, da Alessandria a Milano, in una mappa che non concede eccezioni, i sindaci di ogni colore lanciano un grido di allarme: così non si può più andare avanti, la situazione non è più gestibile. Il quadro descritto ieri su questo giornale non lascia spazio ai dibattiti: è vero, i numeri dicono che non c’è alcuna invasione di «orde nemiche» come troppo spesso viene raccontato, ma è altrettanto vero che le nostre strutture non sono più in grado di assorbire i nuovi arrivati e un ecosistema già ammalato adesso arranca in cerca di ossigeno.

Mancano gli spazi, con i centri di accoglienza che scoppiano (annichilendo gli ospiti in una vita disumana), e con lo smistamento che fatica sempre di più a trovare il naturale sbocco. Mancano i fondi, con i bilanci cittadini, già dimagriti dai tagli e dalla crisi, impotenti davanti alla montagna di azioni da intraprendere. Mancano soprattutto le idee e un’organizzazione centrale degna di questo nome. Lo Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), istituito nel 2015, fornisce ai migranti un sostegno di buona qualità ma i Comuni che hanno aderito sono solo 800, troppo pochi per risolvere il problema. Soprattutto la macchina va a singhiozzo e le previsioni statistiche anticipano che presto andrà in tilt, incapace di sostenere il peso della missione.

Il resto del caos schiaccia i prefetti che devono affrontare nell’ansia del giorno dopo giorno, con mezzi di fortuna, un lavoro che richiederebbe ben altra programmazione. L’assenza di un reale coordinamento fa sì che i pesi siano distribuiti in maniera casuale, dunque diseguale: dove ci sarebbe la possibilità di accoglienza non viene mandato nessuno, dove già c’è il sovraffollamento vengono spediti a getto continuo altri profughi. E così il piano inclinato dell’emergenza scivola verso il punto di non ritorno. Questo dicono i sindaci, questo spiegano gli uomini chiamati a gestire l’ordine pubblico, il resto sono chiacchiere miopi utili solo a rosicchiare qualche manciata di voti alla prossima tornata elettorale sulla pelle delle persone.

Il governo adesso prova a varare misure speciali, cerca soldi e mette sul tavolo nuove iniziative: questo è un bene, ma il programma va messo in atto al più presto perché il fattore tempo è vitale (e non è una metafora). Non si possono sprecare altre occasioni: l’inevitabile società multietnica è un duro lavoro, costa fatica e sacrifici soprattutto in questi tempi di paura ed estremismi. Bisogna alzare il livello del dibattito culturale, smettere di parlare alla pancia del Paese e iniziare ad allenare i cervelli. Ma bisogna anche abbassare gli occhi sulla realtà che ci circonda: affrontare e risolvere i problemi che la presenza di migranti non gestiti e non integrati comporta. Inutile costruire muri. Se ogni giorno donne incinte attraversano il deserto e il mare mettendo a rischio quello che hanno di più sacro al mondo, la vita dei loro figli, non si fermeranno certo davanti alle grida di qualche populista dell’ultima ora. Il dovere della politica è quello di creare un Paese civile dove vivere con dignità e sicurezza. Tutti assieme, loro e noi.

Pubblicato: Lunedì, 18 Luglio 2016 13:00

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