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Anch'io ero uno di loro. Uno di quelli che crede in un mondo migliore

immigrati 2L'Huffington Post, 23-05-2016
Alì Ehsani
Autore di "Stanotte guardiamo le stelle"

Ricordo bene il pomeriggio del 2003 in cui io e mio fratello siamo andati in un grande centro commerciale a Istanbul per comprare un canotto. Ci piaceva quello grigio con le strisce nere e io, che tanto ero ancora un bambino, mi ci ero seduto dentro per provarlo, mentre il commesso mi diceva che ci sarebbero potuti stare dentro almeno altri tre o quattro bambini come me.

"Lo prendiamo" aveva detto mio fratello. "Ve lo sgonfio?" Ci aveva chiesto l'inserviente, di ottimo umore.
"No, va bene così" gli aveva risposto mio fratello. Eravamo usciti dal negozio trasportando il canotto da un marciapiede all'altro, con la gente che ci sorrideva perché un canotto fa gioco e allegria.

La sera abbiamo tolto l'aria e il canotto è diventato un pacchettino con il quale mio fratello due giorni dopo è partito. Era con due amici, l'hanno rigonfiato e hanno preso il mare a Bodrum, sulla costa turca, con l'idea che sarebbero riusciti a raggiungere la Grecia e che lì avrebbero trovato un lavoro. Poi mio fratello avrebbe pagato qualcuno perché mi accompagnasse su una barca a motore e lo raggiungessi.

Non ho mai più visto mio fratello. Vivo da oltre dieci anni in Italia, studio, ho degli amici, persino una fidanzata. Vorrei smettere di pensare a quel tratto di mare ma quasi ogni giorno leggo, tredici anni dopo, che ragazzi come me e mio fratello continuano a morire in quelle acque. Si parla spesso di loro come di disperati, ma a me, che sono stato uno di loro, capita di rimpiangere la speranza che avevo durante il mio viaggio. Non ne ho mai vista tanta di speranza quanto alla tendopoli di Patrasso, quella in cui nei primi anni Duemila stavano asserragliati i ragazzi che cercavano di raggiungere clandestinamente l'Italia.

Non c'è niente di più simile alla speranza nel decidere di emigrare: speranza di arrivare da qualche parte migliore, speranza di farcela, speranza di sopravvivere, di tenere duro, speranza di un lieto fine come al cinema.

Sono cresciuto a Kabul negli anni Novanta sotto le bombe e, anche se non avevamo la televisione che se ne era andata assieme alla corrente elettrica e all'acqua potabile, in cuor mio sapevo benissimo che altrove doveva esserci qualcosa di meglio. Adesso questi stessi ragazzi possono seguire in tempo reale come viviamo noi in Europa, in Occidente, possono invidiarci e desiderare la nostra vita senza guerra: non rinunceranno a farne parte. E allora?

In questi anni la comunità internazionale si è comportata come quei personaggi dei cartoni animati che, quando si creano delle falle in un tubo, iniziano a mettere uno straccio di qui e un altro di là per tamponare le perdite ma, chiusa una falla, i getti d'acqua trovano sfogo in altri punti. Si è trattata da contingenza un'emergenza epocale.

Non ho alcuna soluzione da proporre, ma credo si debba fare di tutto per trovarla e il motivo è molto semplice: conosco l'animo dei migranti, sono stato uno di loro, e so che non sarà un accordo con la Libia o con la Turchia a fermare quest'onda che preme alle nostre frontiere. Sembra ingenuo chiedere delle risposte, chiedere che i potenti del mondo si siedano attorno a un tavolo e trovino un modo per salvare la vita a tutta questa gente.

Spesso mi scontro con il cinismo di chi dice che il mondo va come deve andare: ma se non ho mai visto il cinismo trasformare la realtà, ho una lunga lista di ingenui che hanno cambiato il mondo.

Pubblicato: Lunedì, 23 Maggio 2016 13:12

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