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Torino: la storia di Rachid e le presunte violenze

carcereRistretti orizzonti, 11-04-2016
Chiara Proietti D'Ambra

Rachid Assarag mostra lividi su volto e gambe, accusando gli agenti di Torino. Dopo quelli di Parma. Al vaglio della procura l'audio del presunto pestaggio. È questo il ritratto che Rachid Assarag ha mostrato di se stesso, accusando la polizia penitenziaria del carcere di Torino, davanti al giudice nell'udienza di venerdì 11 marzo, tenutasi a Parma. Oggi Rachid è detenuto nel capoluogo piemontese, ma la sua vicenda ha inizio molto prima, nel carcere emiliano.

È una storia lunga e complessa, cominciata nel 2008, quando l'uomo di origini marocchine inizia a scontare una pena detentiva di nove anni e quattro mesi per il "reato odioso", come lo definisce il suo avvocato Fabio Anselmi, di violenza sessuale. Da subito, la vicenda si trasforma in una battaglia estenuante tra detenuto e autorità penitenziarie. All'interno del carcere di Parma, secondo la moglie del detenuto, avviene "il primo pestaggio nel 2010", poi c'è "il secondo appena due mesi dopo, a dicembre". All'epoca "Rachid insiste molto per sporgere denuncia, così presenta le prime tre", dice Emanuela a Lettera43.it.

Rachid però non si ferma e inizia a mettere su nastro la sua vita dietro le sbarre, grazie a un registratore che porta con sé per tre mesi. Un tempo sufficiente, quello da marzo a maggio 2011, per raccogliere più di 300 ore di audio. "Sono parole che gelano solo a sentirle" commenta l'avvocato Anselmo, che ha assistito anche le famiglie di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.

Nell'audio del 31 maggio 2011 un agente di polizia del penitenziario di Parma rivolge questa frase a Rachid, che gli chiede se ricorda di averlo picchiato: "Eh, ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se ci sei dentro anche tu". Il detenuto allora fornisce qualche particolare in più e l'agente ammette: "Adesso sì [che ricordo]. Ti posso far sotterrare. Qui comandiamo noi, né avvocati né giudici, comandiamo noi".

Il Sappe dell'Emilia Romagna Giovanni Battista Durante respinge ogni accusa: "Sappiamo che Rachid non è mai stato un detenuto modello, questo non vuol dire che debba essere picchiato e noi, infatti, sappiamo che non è mai stato percosso". Per il sostituto procuratore Emanuela Podda le parole attribuite agli agenti del penitenziario di Parma, "seppur inquietanti, paiono lezioni di vita carceraria, più che minacce e affermazioni di supremazia assoluta o negazione dei diritti".

Per questa inchiesta contro 10 agenti penitenziari del carcere di Parma viene chiesta l'archiviazione. Il motivo? "Arriviamo sempre in tribunale e chiedono a Rachid di identificare gli agenti che accusa, ma in carcere non c'è l'identificativo", spiega l'avvocato. Per questo il detenuto non è mai in grado di dire a chi appartengano le voci registrate nelle sue tracce audio.

Durante definisce ancora oggi "oscura" l'intera vicenda, soprattutto perché "non si sa come [Rachid] abbia fatto ad avere un registratore e chi gliel'abbia procurato". Rachid dopo le denunce appare sempre più provato, arriva a pesare 39 chili, si muove su una sedia a rotelle ma la determinazione e l'ostinazione non sembrano piegarsi. "Anche prima del carcere è sempre stato così", spiega Emanuela, "se c'era un sopruso, delle persone che litigavano, lui doveva fare da paciere, non è un tipo che si volta dall'altra parte. In tanti guai si è infilato proprio per questo".

Da Parma in poi è tutta una collezione di trasferimenti da un carcere all'altro d'Italia, 11 in tutto, fino a Torino, dove è recluso in questo momento. Prato è l'istituto penitenziario dove è stato di più, due anni e mezzo, e Rachid ha continuato a registrare: "Ormai era diventata una missione", dice Emanuela. Proprio in una registrazione fatta all'interno del carcere toscano, Rachid chiede a un agente perché non abbia fermato il suo collega mentre lo picchiava. L'agente risponde così: "Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c'è bisogno che ti picchio anch'io".

Dopo Prato c'è il carcere di Firenze, periodo a cui risalgono proprio le pubblicazioni, da parte dell'associazione "A Buon Diritto" presieduta dal senatore Luigi Manconi, delle registrazioni nell'istituto penitenziario di Parma. "Da quel momento è iniziata l'escalation, lo stanno massacrando di trasferimenti", commenta Emanuela.

In ogni carcere, si innesca un meccanismo estenuante: a ciascuna accusa del detenuto corrisponde una denuncia da parte della polizia penitenziaria. Cambiano gli istituti di detenzione ma, a sentire Rachid e il suo legale, è sempre la stessa storia. L'ultima apparizione in aula del detenuto marocchino risale all'11 marzo, a Parma, dove è imputato per oltraggio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale per fatti risalenti al 2010.

Non doveva parlare, invece si è presentato, accompagnato in sedia a rotelle, e ha denunciato nuovi maltrattamenti, che avrebbe subito, questa volta, nell'istituto penitenziario di Torino, l'8 marzo, mostrando i lividi sul corpo. Quindi ha chiesto di essere spostato in una sezione protetta, come previsto per chi si è macchiato di reati sessuali, ma il segretario del Sappe piemontese Santilli ribatte: "A quanto ne so è in una sezione protetta" già ora. E aggiunge che in realtà "due agenti sono stati aggrediti dal detenuto Assarag e sono stati refertati con due giorni di prognosi".

Ora la palla passa alla procura di Torino che dovrà verificare l'accaduto all'interno del carcere piemontese ed eventualmente avviare un'azione penale. "Non voglio difendere l'indifendibile", conclude Santilli, "ma ci sono tante vite che vengono salvate in carcere grazie al lavoro degli agenti, queste storie però non fanno notizia". L'avvocato di Rachid è riuscito a ottenere il confronto fonico delle tracce audio registrate un anno e mezzo fa a Parma, per verificare se le persone che accusano Rachid oggi di violenza siano le stesse che ammettono i maltrattamenti. Richiesta accolta e udienza rimandata al 16 settembre.

"Non so se stanno mettendo in campo una strategia per sfinirci moralmente, fisicamente ed economicamente sia con le denunce che con i continui trasferimenti", commenta Emanuela, che non ha mai smesso di sostenere il marito raggiungendolo in questi anni in ogni parte d'Italia. "Io sono fortunata, ho una macchina e da Como mi sposto da sola ma in questi anni ne ho visti di tutti i colori, L'ultima che ho visto era una signora di quasi settant'anni che dalla Calabria veniva a Torino per un'ora di colloquio. Non hanno pietà, è un sistema che non ha pietà". Al termine della pena mancano due anni. Un tempo che, alla moglie, sembra infinito: "Non posso permettermi di preoccuparmi ogni volta che vedo dei lividi sul suo volto, ormai è un'abitudine", dice. Prima di concludere sottovoce, quasi non volesse farsi sentire: "Gli ho procurato sempre io i registratori. E questo ci ha unito molto".

lettera43.it, 11 aprile 2016

Pubblicato: Lunedì, 11 Aprile 2016 11:53

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