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Giornalisti rifugiati

Valentina Brinis, di A buon diritto, ha raccolto la testimonianza di Mbede.

È la ricostruzione meticolosa di un semplice, semplicissimo, percorso burocratico. Ovvero le peripezie di un rifugiato, giornalista nel paese d’origine, e la sua improba fatica per ottenere il riconoscimento del suo status professionale in Italia. Un esempio, tra i molti possibili, di come si possa fare dell’integrazione un miraggio e di quanto sudore comportino, per uno straniero, l’acquisizione e l’esercizio delle più elementari prerogative.

Jean Claude Mbede. Oggi ho ritirato il tesserino dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Accade a molti, ma non a tutti. E a me era davvero poco probabile che capitasse, perché sono un rifugiato. Mi chiamo Jean Claude Mbede, ho 36 anni, sono un giornalista nato e vissuto in Camerun. Sono arrivato in Italia nel 2008 dopo essere scappato dal mio paese a causa delle inchieste da me realizzate su alcuni membri del governo. La mia fuga è stata progettata dal carcere dove ero rinchiuso e da dove, forse, sarei anche potuto non uscire mai considerate le violenze che i detenuti subiscono. Ho approfittato del permesso per una visita medica per scappare. Prima in Nigeria e poi in Italia.

In tempi rapidissimi mi sono trovato a prendere la decisione più importante della mia vita: a quale paese chiedere asilo. Ho scelto l’Italia dopo aver scartato, mio malgrado, la Francia dove i contatti “pericolosi” con il mio paese sarebbero stati troppi, e mi sarei ritrovato facilmente in situazioni rischiose. L’Italia, dunque. E qui, fin da subito, nonostante le difficoltà fossero enormi e i miei pensieri per nulla leggeri, ho sentito la necessità di riprendere a esercitare la mia professione di giornalista. Sapevo che la procedura burocratica sarebbe stata lunghissima ed estenuante perché, come ho detto, sono un rifugiato. Ciò significa che proprio a causa di quella fuga non ho con me alcun documento che certifichi alcun evento del mio passato. Da quando sono in Italia ho raccontato a tutti di essere giornalista. Ma come dimostrarlo? Come essere creduto?

Mi sono rivolto alla sede romana del Consiglio italiano per i rifugiati che, facendomi seguire da Jasmine Mittendorff, mi ha aiutato a presentare la domanda di riconoscimento della professione al ministero della giustizia. Lì ho consegnato tutti i documenti che possedevo: permesso di soggiorno, verbale della commissione territoriale che mi concedeva lo status di rifugiato e gli attestati e le dichiarazioni dei giornali e delle agenzie di stampa per cui avevo lavorato in Italia. Dopo un anno e mezzo, nessuna risposta. Cominciavo a deprimermi perché questo ritardo si intrecciava a una serie di fallimenti: l’assenza di un impiego, reiterati “no” a domande di lavoro presentate, la mia famiglia (mia moglie e le nostre due bambine arrivate in Italia grazie al ricongiungimento familiare) che soffriva a vedermi sempre teso e che non riusciva a ritrovare la necessaria serenità in un contesto del tutto nuovo.

A questo punto ho chiesto l’intervento dell’associazione A buon diritto che, tra le altre cose, a Roma si occupa di fornire sostegno a persone straniere per l’adempimento di pratiche amministrative e che, da questa attività, trae occasioni e strumenti per azioni collettive. È così che ritrovo una vecchia amica, Valentina Brinis, che già mi aveva sostenuto nel momento del mio arrivo in Italia.

Valentina Brinis. Quando ho ricevuto la telefonata di Jean Claude ho pensato che sarebbe stato sufficiente un incontro con i funzionari dell’ufficio del ministero della giustizia per sbloccare la situazione. Pensavo si trattasse di un problema di comunicazione per cui uno dei due (ministero o richiedente) avesse cercato l’altro senza mai trovarlo; e che, dunque, quella pratica fosse finita sotto un cumulo di altri fascicoli, magari già chiusi, di cui non si riusciva a rintracciare l’intestatario. Questo è quanto accade in molti uffici pubblici perché la persona che presenta una domanda non è poi facilmente reperibile a causa dei frequenti cambi di sim o di indirizzo di residenza. Capita spesso ai rifugiati che magari utilizzano questo sistema per motivi di sicurezza o perché conducono, loro malgrado, una vita segnata dalla precarietà. In questo caso, non era accaduto nulla di tutto ciò. L’ufficio competente al ministero della giustizia, dopo una verifica, mi dice di essere da oltre un anno in attesa di una risposta da parte del ministero degli esteri. Ma a quale domanda deve rispondere? La funzionaria mi spiega che è la prima volta che trattano la richiesta di un rifugiato giornalista e che, oltretutto, non hanno la più pallida idea di quale sia la procedura da seguire in Camerun per ottenere tale titolo. Non hanno, dunque, strumenti per verificare la veridicità della biografia di Jean Claude a parte quello di consultare il ministero degli esteri che, a sua volta, si deve rivolgere all’ambasciata italiana in Camerun. Prendo allora contatto con il funzionario degli Esteri chiedendo il motivo di tale tempistica e mi suggerisce di scrivere all’ambasciata italiana in Camerun per avere l’informazione chiave: come si diventa giornalisti in quello stato dell’Africa?

La procedura non era a me completamente ignota perché ne ero già venuta a conoscenza attraverso il sindacato camerunense dei giornalisti che, oltretutto, mi aveva fatto avere il tesserino di giornalista di Jean Claude. Ma l’importante, ai fini del riconoscimento italiano, era che a descriverla fosse l’ambasciata italiana. Solo quel messaggio sarebbe stato ritenuto valido dai ministeri coinvolti. Dopo pochi giorni dall’invio della mia richiesta all’ambasciata, ecco che arriva la risposta: “In Camerun non esiste un albo dei giornalisti o un organismo similare o un riconoscimento dato dallo stato. Dopo la maturità esiste una laurea breve di giornalismo (2/3 anni) può essere statale o privata. Quindi si può già intraprendere una carriera giornalistica della stampa o radiotelevisiva presso le aziende adeguate. Sono queste aziende che rilasciano, a loro discrezione, una carta professionale”.

Ma questa bella e semplice spiegazione non è risultata sufficiente agli uffici competenti dei ministeri degli esteri e della giustizia perché, quello stesso messaggio, doveva essere steso in forma ufficiale. E allora ecco che, proprio per questo motivo, la conferenza dei servizi, organo preposto alla deliberazione finale sulla concessione del riconoscimento della professione, dà risposta negativa il 15 dicembre 2012. A quel punto sarà lo stesso ministero degli esteri a richiedere informazioni all’ambasciata che, oltretutto, ha espresso un giudizio di valore sulla professione di giornalista già svolta da Jean Claude nel proprio paese. Sarà questa informazione a far sì che il 15 marzo la conferenza esprima parere positivo. E non solo. Il decreto rilasciato dava disposizioni per l’immediata iscrizione all’ordine dei giornalisti senza l’esame di solito previsto.

Jean Claude. “Le comunico che la conferenza di servizi di oggi,15 marzo 2013, ha accolto la sua domanda di riconoscimento per il titolo professionale. Appena pronto il decreto, le verrà inviato in copia autentica al suo indirizzo”. E poi, finalmente, arrivano queste belle parole: “riconosciuto il titolo professionale, quale titolo valido per l’iscrizione all’albo dei ‘giornalisti professionisti’ e l’esercizio della omonima professione in Italia”. Quella pratica così estenuante si era finalmente conclusa. La settimana successiva ho presentato la documentazione all’Ordine dei giornalisti e, con non poche difficoltà anche di carattere economico, sono finalmente riuscito a iscrivermi. Ora, se dio vuole, e se il mercato del lavoro giornalistico in Italia mi darà qualche opportunità, potrò finalmente fare il mio mestiere.

Valentina Brinis. La storia a lieto fine di Jean Claude è, fino ad oggi, un’eccezione. Sono molte le persone che nel mondo fuggono a causa delle persecuzioni subite: tra l’altro, la negazione della libertà di espressione e del diritto di parola. In Italia, si stima, che siano numerose decine le persone che, nei paesi di origine, svolgevano attività legate all’informazione e alla comunicazione. In altri paesi europei, come la Francia o la Germania, sono attive strutture dedicate alla loro accoglienza. In Italia non c’è nulla del genere: ecco perché A buon diritto intende promuovere un coordinamento di giornalisti rifugiati e sostenerli nelle vertenze finalizzate a ottenere il riconoscimento della loro professione anche nel nostro paese.

Pubblicato: Sabato, 18 Ottobre 2014 16:27

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