Slegami
“Io non voglio legare la gente”. Intervista a Piero Cipriano
Oltremedia, 16-04-2015
Grazia Serra
La contenzione meccanica non è mai un atto medico. Piero Cipriano, psichiatra romano, non ha dubbi. È necessario colmare il “buco legislativo” della Legge 180 del 1978 che ha chiuso i manicomi, ma non ha espressamente vietato l’uso delle pratiche coercitive. Cipriano, a differenza di molti suoi colleghi, racconta quello che avviene nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura. Nei suoi libri “La fabbrica della cura mentale” e “Il manicomio chimico” affronta questioni legate alle tradizionali pratiche manicomiali, come la contenzione e l’elettroshock, fino ad arrivare alle forme più evolute del manicomio.
Oggi dove viene praticata la contenzione meccanica?
Nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), nelle case di riposo, nei reparti di medicina, di neurologia, di neuropsichiatria infantile e nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA).
Secondo Lei, oggi in Italia è una pratica molto diffusa?
Io credo di sì, ma il dato numerico preciso non lo sa nessuno con certezza, se non chi ci lavora, nel singolo servizio o reparto. Possiamo però fare un’inferenza, a partire dai dati della ricerca Progress Acuti 2007, in cui emergeva che l’80% dei SPDC d’Italia (circa 320) erano (allora, otto anni fa) a porte chiuse. Ed erano dotati di strumenti per la contenzione. E di protocolli e linee guida per effettuarla bene, la contenzione. Contenere bene è un ossimoro, ovviamente. Per cui l’inferenza che faccio è che i reparti chiusi, e attrezzati per legare, all’occorrenza legano i pazienti. Però, sulla base di una ricerca che ha coinvolto i SPDC del Lazio, emerge che viene legato, in media, un paziente ogni dieci ricoverati. Per una media di dodici ore. Ciò significa che vi sono reparti dove il numero dei contenuti è maggiore di uno su dieci, e altri in cui il numero è minore, e lo stesso discorso vale per il numero di ore, reparti dove legano in media per poche ore e reparti dove i pazienti restano legati per giorni. Secondo me il 10% di pazienti ricoverati legati è un’enormità.
In base alla sua esperienza, riuscirebbe a dire se nel corso degli anni il suo utilizzo è aumentato o diminuito?
Rispetto a questo non vi sono studi, né statistiche. Sulla base della mia esperienza personale e di colleghi di cui mi fido e che lavorano in altri reparti, ritengo che negli ultimi anni il fenomeno sia persino peggiorato, e ciò sia per la drammatica riduzione di risorse umane nei servizi territoriali, sia per una mancanza di formazione e cultura che ha determinato il ritorno prepotente delle pratiche manicomiali.
Sa dirmi chi sono le persone che solitamente vengono contenute?
Chi non lavora in questi servizi potrebbe credere che la contenzione meccanica sia un’ultima ratio, che riguarda essenzialmente i pazienti aggressivi. Invece no. Si lega perché un paziente si vuole allontanare dal reparto. Perché è minaccioso. Perché è troppo sedato e cade. Oppure perché non vuole assumere la terapia farmacologica.
Quali sono le motivazioni? Può raccontare un episodio di cui Lei è a conoscenza?
La motivazione è quasi sempre il cosiddetto stato di necessità, ovvero il ricorso all’articolo 54 del Codice Penale (“Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave”), lo scudo legale dei medici che indulgono in questa pratica. Talvolta lo scrivono perfino in cartella: “contenuto il paziente per stato di necessità”. Ma stato di necessità significa che il pericolo deve essere attuale (qui, ora, non tra due ore), e di un danno grave (rischio di vita, non che urla in faccia a un operatore). Invece, quasi sempre, lo stato di necessità che viene scritto in cartella non rappresenta uno stato di vera, reale necessità. Ricordo un paziente che fu legato perché sputava. Ma mica sputava in faccia alle persone! Sputava ai muri e alle porte del SPDC (che lo tenevano al chiuso). Bastava leggere la metafora che rappresentava quel gesto. Invece gli psichiatri, spesso, sono inverosimilmente concreti.
Quando si ricorre alla contenzione esiste una prassi da seguire?
Esistono delle linee guida per contenere bene, che prescrivono di bloccare il paziente almeno in cinque, un operatore per ogni arto, più uno per la testa. Le linee guida prescrivono di legare tutti e quattro gli arti per non rischiare di procurare danni al paziente. Prescrivono anche di somministrare antiaggreganti, per evitare tromboembolie causate dall’immobilizzazione forzata. Prescrivono di valutare il paziente nei suoi parametri psico-fisici ogni poche ore.
Cosa pensa del ricorso alla contenzione?
Penso che non sia una pratica etica. Penso che non vi sia nulla di terapeutico in questa pratica. Dissento profondamente da chi la ritiene un atto medico. Non tutto ciò che decide un medico è atto medico. Non occorre essere medico né psichiatra per decidere una contenzione. Basta essere un poliziotto o un carceriere. Penso che questa pratica vada messa fuorilegge così come sono stati messi fuori legge i manicomi. La 180, legge quadro, purtroppo non ne parla. Probabilmente è necessaria una norma chiara che proibisca questa pratica equiparandola a un atto di tortura. E ovviamente andrebbe introdotto il reato di tortura nel nostro Codice Penale.
Quali sono i benefici o i danni per un paziente sottoposto alla contenzione meccanica?
Non esistono benefici per il paziente, anzi la persona contenuta riporterà solo un’umiliazione indelebile, uno smacco alla sua dignità, che per tutta la vita cercherà di rimuovere, dimenticare, a volte anche giustificare, purtroppo. Apparentemente i benefici sono solo per l’equipe, che crede, immobilizzando un paziente problematico al letto, di impegnarsi di meno. Invece non solo aumentano i rischi per la vita stessa del paziente, ma aumenta anche il grado di violenza, di terrore, e di insoddisfazione nel reparto.
Secondo lei possono essere messe in atto delle pratiche alternative alla contenzione meccanica?
Sì. Per la mia esperienza la stragrande maggioranza delle contenzioni sono evitabili, anche con un’equipe disomogenea. Se poi tutta l’equipe è concorde nel non adoperare questa pratica, allora ritengo che la contenzione sia sempre evitabile. Basta impegno, voglia di mettersi in gioco, entrare in relazione col paziente, comprenderlo, invece di oggettivarlo. Si può anche, in casi estremi, dover contenere fisicamente un paziente, tenendolo fermo, abbracciandolo, facendo holding, mettendosi in gioco, corpo con corpo, senza delegare alle fasce, ma ciò è un’altra cosa. Si può poi tranquillizzarlo farmacologicamente, senza però stenderlo, senza fare le terapie dell’agonia o del sonno tanto in uso (che quella sì è contenzione chimica).
Le è mai capitato di evitare di contenere meccanicamente un paziente? Se si, in che modo?
Mi capita continuamente di evitare di contenere un paziente. E bada che in un reparto dove la maggior parte degli operatori ritiene che la contenzione sia inevitabile e in fondo giusta e opportuna, non legare è molto più difficile. Quando poi capito in turno col gruppo di infermieri no restraint, io sono pressoché sicuro che qualunque cosa accada riuscirò a non legare un paziente.
È possibile abolire definitivamente la contenzione meccanica? Secondo lei in che modo?
È stato già fatto, e vi sono Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, in Italia, seppure pochi (15-20) dove non si lega. A Trieste le fasce le hanno buttate dagli anni ‘70. L’arma che uccide non ce l’hanno. E se non hai l’arma non la usi. T’inventi qualcos’altro. Basterebbe proibire per legge di possedere le fasce.
Vuole aggiungere qualche altra considerazione sul tema?
Vorrei solo fare lo psichiatra. I veri anti psichiatri sono quelli che legano. Io non ho voglia di legare la gente, e non voglio che nessuno mi obblighi a farlo.