Le Storie
Riccardo Rasman
La vicenda
Il trentaquattrenne Riccardo Rasman viene ucciso in casa propria il 27 ottobre 2006. Rasman, triestino, soffriva di schizofrenia paranoide con delirio persecutorio a causa di episodi di nonnismo subiti durante il servizio militare: era in cura presso il centro di igiene mentale e percepiva una pensione di invalidità. Quella sera, euforico per aver trovato lavoro come operatore ecologico, getta alcune miccette dalla finestra del suo appartamento. Un vicino di casa, infastidito, chiama il 113. Poco dopo le 20 giungono sul posto quattro agenti di polizia e quattro vigili del fuoco: prima che arrivino all’appartamento di Rasman, una vicina di casa li ferma e dice loro di essere stata ferita all’orecchio da una delle miccette. Questa circostanza, nel corso del processo, risulterà essere falsa. Gli agenti bussano alla porta, ma Rasman si rifiuta di aprire, poi va in cucina, scrive su un foglietto “Per favore per cortesia vi prego non fatemi del male, non ho fatto niente di male” e va a stendersi sul letto. Nel frattempo -sono le 20:54- i vigili del fuoco sfondano la porta. Gli otto irrompono nell’appartamento, si gettano su Rasman, lo buttano a terra e gli legano mani e piedi usando anche del fil di ferro, poi lo immobilizzano salendogli sul torace.
Il referto dell’autopsia attribuirà il decesso a un’asfissia posturale, ma evidenzierà anche segni di percosse e una ferita alla testa, compatibile con il piede di porco usato per sfondare la porta. Sui muri dell’appartamento si rinvengono ovunque schizzi di sangue.
I primi rilievi, in ogni caso, vengono effettuati dagli agenti coinvolti. Nel corso delle indagini gli inquirenti, colleghi degli stessi, ritrovano nell’abitazione una bottiglia di vino vuota: l’ipotesi che la vittima fosse ubriaca al momento della colluttazione, però, è stata smentita dagli esami tossicologici. Da questi, infatti, risulta che la concentrazione di alcool nel sangue della vittima era pari a zero.
In un momento iniziale, il fascicolo sembra prossimo all’archiviazione. Solo grazie all’opera di contro investigazione svolta dal legale della famiglia Rasman, Giovanni di Lullo, e di Fabio Anselmo, avvocato anche delle famiglie Cucchi e Aldrovandi, la Procura di Trieste si convince ad aprire un procedimento penale.
Il processo
Il processo a carico dei quattro agenti di polizia si è concluso nel dicembre 2011. La sentenza della Cassazione ha sostanzialmente confermato quanto era stato già deciso in primo grado e in Appello: Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi sono stati condannati con la condizionale a sei mesi per omicidio colposo, come eccesso di legittima difesa. La quarta imputata, unica donna tra gli agenti, è stata assolta con formula dubitativa. Nessun provvedimento disciplinare è stato preso nei loro confronti.
La famiglia Rasman, attraverso i propri rappresentanti legali, di Lullo e Claudio Defilippi, ha sporto denuncia anche contro due dei vigili del fuoco, che in un verbale avevano scritto di aver contribuito a legare Riccardo con il fil di ferro. La Procura di Trieste, però, ha destinato il fascicolo all’archiviazione.
Nel frattempo, di Lullo e Defilippi hanno depositato nuovi documenti, affinché fossero messi agli atti. Nello specifico, un certificato di morte trovato appallottolato sotto al letto di Riccardo, collocherebbe la morte dell’uomo alle 21.55, dopo dunque un paio di ore dall’irruzione delle forze dell’ordine nel suo appartamento. Secondo i due legali, il documento dimostra che Rasman, prima di morire, subì un’agonia lunga più di un’ora. Inoltre, una nuova perizia medico-legale, a partire da alcune foto scattate dopo il decesso, mostra come alcuni segni presenti sul volto di Riccardo potrebbero essere compatibili con i segni lasciati da un bavaglio: l’ipotesi è che Rasman sia morto anche per soffocamento.
Sulla base di questi nuovi elementi, nel 2013 la famiglia ha intentato una causa civile nei confronti dello Stato, chiedendo, per i danni subiti, un risarcimento che si aggira intorno agli 8 milioni di euro. Il 29 aprile 2015 il ministero dell’Interno e i tre poliziotti sono stati condannati a risarcire la famiglia con un milione e duecentomila euro.