Le Storie
Katiuscia Favero
La vicenda
La mattina del 17 novembre 2005 intorno alle 9 Maria Patrizia Favero chiama l’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere dove è ricoverata sua figlia Katiuscia per parlare con l’assistente sociale poiché ha bisogno di alcuni documenti. Per due volte le dicono che l’assistente sociale non è ancora arrivato. Richiama una terza volta e le viene passato un medico, che le comunica che sua figlia ha fatto una "birichinata": Katiuscia è morta suicida.
Katiuscia era segnata da un disturbo della personalità che fin da giovanissima l’aveva portata a consumare droghe e a compiere reati di lieve entità alternando periodi di detenzione a periodi di cura. Dai 13 anni viene seguita da uno psichiatra del Centro di igiene mentale di Savona che la aiuta a disintossicarsi. Costui certifica e ripete che il modo migliore per far sì che Katiuscia riprenda a svolgere una vita regolare è il reinserimento nel contesto familiare, al di fuori del regime detentivo, seppur seguita dal Centro di igiene mentale. Le cose però non sono andate così. Katiuscia all’inizio del 2002 viene rinchiusa, neanche trentenne, nell’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Castiglione delle Stiviere dopo essere stata condannata per il furto di un orologio. Viene portata all’Opg con la motivazione che, a causa del suo stato di salute, non sarebbe idonea al carcere. A febbraio Katiuscia denuncia un medico per molestie e due infermieri per violenza sessuale e il giorno successivo due medici la dimettono dall’Opg sostenendo che la paziente non presenta alterazioni psichiche tali da giustificare la sua presenza in quella struttura, facendola così tornare nel Carcere di Pontedecimo.
Quando entra in carcere il dottor Giacomo Toccafondi la visita e segnala una condizione a rischio: la paziente infatti si è tagliata a zero i capelli e procurata tagli all’addome. Il 12 febbraio 2002 la ginecologa del carcere, Elivia Burchielli, cerca invano di visitare Katiuscia, che ha un forte dolore all’apparato genitale (tanto da non riuscire a stare seduta). Venti giorni dopo Katiuscia acconsente a effettuare la visita ginecologica. La Burchielli evidenzia una “fessurazione in corrispondenza dell’orifizio vaginale esterno”, “abrasioni” e “lesioni interne”. Il certificato scomparirà dal diario clinico della paziente e resteranno solo gli appunti della ginecologa e i ricordi e i racconti di Patrizia Favero, che ha visto il certificato prima che questo scomparisse. A causa della dispersione di importanti referti il fascicolo aperto in seguito alla denuncia viene archiviato e i due infermieri e il medico accusati di violenze sessuali vengono assolti per mancanza di prove. Katiuscia però nei numerosi interrogatori non si contraddice mai e ricostruisce l’accaduto evidenziando di avere avuto una ferita alla mano procuratagli dalla pressione delle chiavi degli uomini che le hanno mosso violenza, appese alla cintola dei due. Gli infermieri ammettono di averla legata al letto di contenzione e non hanno un alibi per l’ora della violenza né un solo testimone che suffraghi la loro vaga versione dei fatti. Uno dei due infermieri viene trasferito, gli altri due accusati rimangono al loro posto.
Il 12 maggio 2005, terminata la pena detentiva, Katiuscia invece che essere rimessa in libertà viene dichiarata pericolosa per sé stessa e per gli altri e le viene imposto un nuovo periodo d’osservazione nell’Opg nel quale aveva denunciato di aver subìto violenze. Viene riportata in quel luogo con una motivazione opposta rispetto a quella che tre anni prima l’aveva fatta uscire proprio da lì. La madre riferisce che spesso nell’Opg Katiuscia viene legata a un letto di contenzione, per le più disparate motivazioni: aver bevuto caffè, aver mangiato una caramella e che una volta rimane legata in contenzione per addirittura venti giorni. Il 28 novembre 2005 Katiuscia dovrebbe uscire.
Il 16 novembre chiama la madre e all’inizio la telefonata sembra una telefonata normale, nella quale Katiuscia si informa sullo stato di salute della figlia 14enne Juliana, chiede qualche soldo sul conto, alcuni abiti, cibo. Poi all’improvviso la sua voce si fa flebile, non vuole farsi sentire. Dice di aver paura, chiede aiuto alla madre, le dice che stanno succedendo cose strane. Patrizia prova a calmarla e rassicurarla, le consiglia di non rimanere mai sola, le ricorda che la andrà a trovare dopo tre giorni. Saranno le ultime parole che dirà alla figlia, che morirà la sera stessa e verrà ritrovata nel cortile della struttura, di notte, con il collo avvolto da un cappio ricavato da un lenzuolo bagnato e legato a una grata malferma.
La madre fin dal primo momento non crede al suicidio. Appresa la notizia si reca prima all’Opg e poi in una vicina stazione di Carabinieri per denunciare il fatto. In caserma un maresciallo cerca di far desistere Patrizia dal chiedere l’autopsia: le dicono che il pubblico ministero non vuole disporla e che il medico di guardia non la ritiene necessaria perché la morte è dovuta alla rottura dell’osso del collo, ipotesi peraltro non confermata da Franco Tagliaro, il medico incaricato di effettuare l’autopsia. Patrizia non rinuncia. I Carabinieri le dicono che dopo qualche giorno verrà fatta l’autopsia, ma alla data stabilita le chiedono invece di portare via il corpo della figlia, rimasto in una cella frigorifera. La Favero si rifiuta e si reca alla procura di Mantova dove deposita un esposto. Scopre che il pm non è a conoscenza dei suoi dubbi riguardo al suicidio della figlia e delle richieste di indagini più approfondite; che il lenzuolo non è stato sequestrato, che non è stato fatto nessun sopralluogo nella camera ma che questa è stata sbrigativamente imbiancata e svuotata di tutto, che il diario di Katiuscia è stato preso da qualcuno e infatti verrà restituito con alcune pagine strappate.
Il processo
E’ stato aperto un fascicolo contro ignoti con l’accusa di omicidio volontario. Katiuscia è stata ritrovata impiccata a una recinzione poco solida, nel cortile esterno dell’ospedale. In un primo momento, si è detto che i pazienti possono accedere a quel cortile solo fino alle 18 e da quell’orario in poi possono recarvisi solo i medici forniti di un apposito pass. Nel corso delle indagini invece alcuni operatori dichiarano che il cortile è accessibile fino alle 23. In ogni caso ci si chiede come possa aver fatto Katiuscia a recarsi dalla sua stanza al cortile senza che nessuno la notasse. La ragazza nella tasca aveva una lametta e la madre si chiede come mai allora non abbia usato quella per togliersi la vita. Quando Patrizia ha visto il corpo della figlia ha notato un segno molto sottile intorno al collo, come provocato da una corda; dietro la testa una ferita lacero contusa che nessuno ha spiegato; il segno di una puntura sul braccio. Nel sangue di Katiuscia sono stati trovati dosaggi molto alti di barbiturici che fanno pensare a una grande somministrazione avvenuta in un unico momento. I pantaloni della ragazza sono striati di erba e sporchi di fango, le suole delle scarpe invece sono pulite. La rete a cui è stata trovata impiccata aveva maglie troppo sottili per farvi passare attraverso un lenzuolo. Infine, per quanto riguarda l’autopsia, poiché la salma di Katiuscia è stata tenuta in una cella frigorifera per alcuni giorni e a causa dello stato di congelamento del corpo non è stato possibile stabilire l’ora del decesso e il medico incaricato ha richiesto esami sottounguenali per cercare tracce utili alle indagini.
Il professor Tagliaro e Patrizia Favero sostengono che nonostante il prelievo di tali campioni da parte di alcuni carabinieri del Rono di Mantova sia avvenuto, i reperti sono spariti senza mai essere analizzati. Il pm Marco Forte, il primo a occuparsi di tale indagine, è stato trasferito. Lo sostituisce Stefania Pigozzi che rifiuta le richieste di nuovi esami clinici e procede per l’archiviazione. Patrizia Favero invia allora una lettera alla Procura di Brescia nella quale chiede la riapertura delle indagini e un loro approfondimento. La procura generale riapre le indagini. Emerge ora il ruolo avuto dal medico di turno quella notte, lo stesso che qualche anno prima era stato indagato per molestie sessuali: viene accusato di omicidio colposo per non essere intervenuto con misure necessarie a impedire la morte della Favero. Durante l’udienza preliminare però viene emessa sentenza di non luogo a procedere nei suoi confronti. L’ospedale ha offerto 15mila euro di risarcimento danni a Patrizia e Juliana, che li hanno rifiutati.