Le Storie
Giuseppe Uva
La vicenda
Giuseppe Uva, 43 anni, muore alle 10.30 del 14 giugno 2008 nel reparto psichiatrico del pronto soccorso di Varese. La sera prima Uva la passa con l’amico e coinquilino Alberto Biggiogero: i due dopo cena si recano a bere fino alle 2 di notte e quando il locale chiude si dirigono in centro. Qui, euforici e brilli trovano delle transenne accatastate da qualche giorno in via Dandolo e le spostano, mettendole in mezzo alla strada. Alle 3 sopraggiunge una pattuglia dei Carabinieri. Secondo la testimonianza che Biggiogero ha rilasciato alla Procura di Varese, uno dei due militari scendendo dalla vettura corre dietro a Giuseppe e gli urla contro: “Uva, proprio te cercavo stanotte, questa non te la faccio passare liscia, te la faccio pagare”. Biggiogero propone di rimettere le transenne a posto ma i due poliziotti inseguono Uva fino a piazza XXVI maggio e lo scaraventano a terra. L’amico cerca di frapporsi ma viene spintonato via e schiaffeggiato. I militari accusano Uva e Biggiogero di aver spostato un cassonetto in mezzo alla strada: Uva viene poi gettato in una volante, Biggiogero viene messo in un’altra sopraggiunta poco dopo, nonostante chieda di poter stare in quella di Giuseppe perché teme che le violenze nei confronti del suo amico continuino. I due vengono portati alla caserma di Via Saffi: Biggiogero è tenuto in sala d’attesa con carabinieri e poliziotti, Uva è in un’altra stanza. E’ allora che Biggiogero racconta di aver sentito le urla disperate dell’amico intervallate dal rumore di colpi sordi. Racconta anche di aver cercato di recarsi da lui ma di essere stato bloccato da quattro agenti e picchiato. Poi, una volta solo, avrebbe chiamato il 118 dicendo all’operatore che in caserma “stanno massacrando un ragazzo” (agli atti sono depositate le conversazioni telefoniche tra Biggiogero e il 118 prima e il 118 e la caserma poi) ma non arriva nessuna ambulanza. Poco dopo giunge in caserma il padre di Biggiogero per riportare il figlio a casa. Quest’ultimo non vuole andarsene senza l’amico Giuseppe. I carabinieri dicono che Uva si è fatto male da solo, colpendosi e sbattendo ripetutamente, e che non può andar via: è arrivata anche la guardia medica. Poiché Biggiogero non sente più urla si rincuora e torna a casa; qui termina la sua testimonianza. Sono le 5 circa. Dopo che Biggiogero e il padre vanno via dalla caserma viene chiamato il 118 per un paziente che “dà in incandescenze”, e per il quale si richiede un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio). Giuseppe Uva viene portato al pronto soccorso dell’ospedale di Circolo e da qui, alle 8.30, nel reparto psichiatrico dove morirà. Al pronto soccorso gli vengono somministrati una serie di farmaci. La testimonianza del comandante del posto fisso della Polizia di Stato all’interno dell’ospedale di Circolo evidenzia alcuni punti fondamentali: la morte di Uva non è stato un evento “non traumatico”; la cartella clinica del paziente contiene gravi omissioni poiché mancano i riferimenti a ecchimosi e ferite; l’assenza degli slip di Uva e le macchie sul retro dei pantaloni; l’inesistenza, nella storia clinica di Uva, di precedenti psichiatrici. La sorella di Giuseppe, Lucia Uva, aiutata dagli avvocati Fabio Anselmo, Alessandra Pisa e Fabio Ambrosetti, si batte per la verità con il sostegno di varie associazioni. Sulla vicenda, Adriano Chiarelli e Francesco Menghini hanno girato un docu-film dal titolo "Nei secoli fedele - Il caso di Giuseppe Uva". Chiarelli, Lucia Uva, il giornalista delle Iene Mauro Casciari e il direttore di Italia Uno Luca Tiraboschi, sono stati querelati per diffamazione, e in seguito assolti.
Il processo
Una prima inchiesta per omicidio colposo ha come imputati tre medici del pronto soccorso e del reparto psichiatrico dell’ospedale di Varese. La pubblica accusa ritiene che i farmaci somministrati a Uva fossero non necessari e incompatibile con il suo stato etilico e che l'unione di quei medicinali con l’alcol avrebbe compromesso “in modo irreversibile le funzioni vitali della parte lesa” causando insufficienza cardiorespiratoria e conseguente edema polmonare terminale. Nell’udienza preliminare del dicembre 2010 il giudice decide il non luogo a procedere nei confronti del medico del pronto soccorso. La salma di Uva viene riesumata per condurre ulteriori indagini e la perizia fatta sul cadavere evidenzia fratture e lesioni. Il pubblico ministero, Agostino Abate, nonostante la richiesta da parte di tre gip di fare chiarezza sul tempo passato da Uva in caserma, non indaga e per questo va incontro a due procedimenti disciplinari, uno da parte del ministero della Giustizia e uno da parte della procura generale della Corte di Cassazione, che lo accusano di aver accantonato inspiegabilmente le indagini su otto operatori dei Carabinieri e della Polizia.
Alberto Biggiogero, unico testimone, fino al novembre 2013 non viene ascoltato dagli inquirenti. Biggiogero, dopo cinque anni e mezzo dalla morte dell’amico, ha poi con il pm Abate un confronto durato oltre quattro ore e di cui si possiede la registrazione audio/video. Il pm durante il colloquio dà l’impressione di voler demolire le parole del testimone, non ascoltandolo e mettendolo in difficoltà, andando contro tutti le regole di gestione degli interrogatori di persone informate sui fatti. Alcune parti di tale confronto sono state pubblicate recentemente dal quotidiano La Repubblica e dall’Associazione A Buon Diritto. L’11 marzo 2014 il giudice Giuseppe Battarino respinge la richiesta di archiviazione per due carabinieri e sei agenti di polizia proposta dal pm Abate e dispone l’imputazione coatta, contro la quale Luca Marsico, il legale dei poliziotti e carabinieri, intende fare ricorso in Cassazione. Il 20 marzo i pm Agostino Abate e Sara Arduini formalizzano l’incriminazione, che presenta tali ipotesi di reato: omicidio preterintenzionale, arresto illegale, violenza privata e abbandono di incapace; inoltre depositano la richiesta di fissazione dell’udienza preliminare e di rinvio a giudizio per gli otto imputati. Tuttavia il procuratore capo Felice Isnardi, con un atto clamoroso, toglie il fascicolo ai due pm - e se lo auto assegna - perché a suo avviso il capo d’imputazione formulato da Abate e Arduini non rispetta “le prescrizioni imposte dall’ordinanza del gip” e manifesta “profili di illogicità e contraddittorietà rispetto al titolo dei reati ipotizzati”. In pratica i due pm avrebbero scritto le imputazioni in modo tale da rendere difficile sostenere l’accusa. Lucia Uva ha espresso soddisfazione per questa svolta e ha affermato che solo adesso partirà il “vero processo”, non più ostacolato da due pm che a suo avviso hanno fin dall’inizio “remato contro”.
Una nuova testimonianza resa di recente prima alla trasmissione televisiva Chi l’ha visto? e poi alla Procura di Varese ha fatto sì che i capi di imputazione per percosse e omicidio preterintenzionale fossero estesi anche all’ospedale di Circolo di Varese. La testimone è un’ausiliaria specializzata che non ha visto direttamente le percosse ma riferisce di aver sentito da coloro che sorreggevano Uva minacce di una “menata di botte” nei confronti di quest’ultimo se non avesse smesso di lamentarsi. Uva sarebbe poi stato portato in bagno e al ritorno non parlava più. Alla donna sarebbe stata chiesta una barella dove stenderlo e costei ne avrebbe indicata una lì vicino. Poi, dice di aver sentito Uva, che si trovava vicino a lei, dire di essere stato picchiato e un agente penitenziario rispondergli che si era “picchiato da solo” battendo la testa al muro.
Nel corso dell’udienza preliminare del 9 giugno 2014, con immenso stupore, il dott. Isnardi ha chiesto al Gip di pronunciare una sentenza di non luogo a procedere per tutti i reati per cui egli stesso aveva redatto i capi di imputazione, fatto salvo quello di cui all'articolo 608 (abuso di autorità contro arrestati), ma limitatamente alle percosse che Uva avrebbe subito in Caserma, chiedendo invece sentenza di non luogo a procedere per le percosse che avrebbe subito in Ospedale. Questa richiesta appare contraddittoria con la condotta processuale tenuta da Isnardi nella integrazione dei capi d'accusa e nella loro riformulazione, visto che egli stesso nel fascicolo parla esplicitamente di percosse inferte a Uva non solo nella sala della Caserma, ma anche "nei locali dell'ospedale del Circolo di Varese".
L’udienza in cui il giudice dovrà decidere l’eventuale rinvio a giudizio è prevista il 30 giugno.
Il caso Uva è in cerca di verità da sette anni - Internazionale, 18-06-2015