Passaggio a livello: Ignazio Marino: la fine di un equivoco
14-10-2015
Ubaldo Pacella
Stasera si recita a soggetto, potrebbe essere questa la raffigurazione emblematica di Marino sindaco di Roma, intrisa di Pirandello, ma giuocata con un velo di tristezza più sulle gag del ragionier Fantozzi, creato da Paolo Villaggio, che dall’alchimia della psiche del grande drammaturgo siciliano.
Il sipario si chiude, ma sarà vero o colpi di scena dell’ultima ora imporranno l’ennesimo ripensamento?
Volge, in ogni modo, a conclusione una vicenda politica figlia di uno straniamento progressivo, della ricerca dell’ homo novus a tutti i costi, soprattutto per coprire la pochezza di una classe politica romana imbelle, quando non corrotta, piegata ad un trasformismo mai domo, espressione di un affarismo becero che tutti i romani onesti pagano con le tasse più alte d’Italia, nel tentativo vano di colmare un abisso di debito, per far fronte al quale, ammesso che non se ne generi altro, dovremmo aspettare sino al 2048.
Ci siamo occupati ormai oltre un anno fa, proprio su queste colonne, dell’anomalia Ignazio Marino. Un non politico, un non manager, un non amministratore, catapultato per un incastro temerario di situazioni al Campidoglio romano. Trascinato dalla iniziale benevolenza dei mass media, da gruppi di aficionados che vedevano in lui un anticorpo al potere lottizzatorio dei partiti romani, nessuno escluso e il PD addirittura in prima fila. Piaceva quella svagatezza, l’improntitudine di chi da senatore si vantava di essere esclusivamente un medico di vaglia e di successo. La voglia granguignolesca di spaccare il mondo a parole, di far saltare il tappo di ogni strategia collusiva, che ha trascinato Roma nella polvere, non solo con la vituperata gestione di Gianni Alemanno, ma che affondava nella melma del malaffare e della cattiva gestione da molti, troppi lustri. Bisogna avere una discreta memoria e una quantità d’anni non trascurabile per ricordare altri primi cittadini degni di una capitale unica al mondo come Roma: pensiamo all’ emerito prof Giulio Carlo Argan, o al risanatore delle periferie Petroselli. Non è questa del resto la sede per azzardare un bilancio dell’ultimo quarto di secolo di politica capitolina, dall’inizio degli anni ’90 ad oggi perché quella stagione sebbene agli epigoni, non appare ancora conclusa.
Torniamo al nostro Marino, un sindaco così atipico da risultare contraddittorio, confuso, impacciato, istrionico e improvvisatore, oltre che un gaffeur da fare concorrenza al principe consorte Filippo di Edimburgo, che ha avuto decenni per inanellare i suoi proverbiali scivoloni, ma che in una classifica avulsa come si dice in gergo calcistico, risulterebbe secondo, considerato il breve spazio di 27 mesi concesso all’Ignazio romano.
La figura del sindaco ha mostrato crepe e colori dissonanti sin dalle prime apparizioni con la fascia tricolore. Il programma operativo non ha mai preso forma, strategie di lungo periodo, investimenti, responsabilità sono apparse ai romani buone intenzioni senza sostanza e costrutto, mentre troppe energie venivano dedicate a scelte di immagine come la parziale chiusura al traffico privato dei fori imperiali, pensate per strappare consensi apparenti sulle prime pagine dei giornali o dei rotocalchi in Italia o ancor più all’estero, quanto effimere e prive di una visione d’insieme sul tema angoscioso e prioritario della mobilità a Roma.
Annoveriamo tra gli scarni successi aver liberato il Colosseo e altri monumenti simbolo dai non mai abbastanza vituperati camion bar di Tredicine, mentre per i “centurioni” la partita è ancora di fatto aperta, il tutto grazie alla grande collaborazione del ministro Dario Franceschini che ha voluto una legge stringente per la tutela del patrimonio artistico museale e archeologico, vero e proprio grimaldello con il quale far saltare i consueti veti del TAR.
Minimi appaiono i successi non effimeri dell’amministrazione, di fronte ad una incapacità gestionale che mese dopo mese ha finito per travolgere una giunta litigiosa, inefficace, priva di un lavoro di squadra, che ha visto succedersi gli assessori cui erano affidati i compiti più delicati, senza che vi fosse un moto d’orgoglio, uno scatto di reni, una novità di indirizzo.
Catastrofica e fuori controllo la situazione di Atac, grave e insoddisfacente quella di AMA, nonostante gli sforzi del nuovo presidente Fortini, ambigua quella di Acea, dove l’estromissione del vecchio CDA, legato a logiche clientelari e spartitorie, non ha lasciato emergere un profilo più moderno, scivolando nei vecchi vizi tra il silenzio del palazzo senatorio. Cosa dire poi delle periferie, delle emergenze sociali, delle politiche di inclusione. Azioni sporadiche prive di coordinamento, di visione d’insieme di nuove alleanze aggregative tra cittadini e istituzioni.
Annunci roboanti seguiti puntualmente dal nulla, basti ricordare l’ammutinamento vergognoso di oltre 800 vigili urbani la notte del 31 dicembre finito in farsa. Sono passati dieci mesi, nessun responsabile, nessuna rimozione dei comandanti di gruppo, nessuna modifica di compiti e assegnazione. Si aspetta l’autorità giudiziaria che ha rinviato a giudizio oltre 90 medici e una cinquantina di vigili. Burocrazia ferma e ingessata, capacità di indirizzo pressoché zero.
Lasciamo stare il capitolo assai inquietante di “mafia capitale” gli intrallazzi e le ruberie “der cecato” e dei suoi accoliti. Tutti a giudizio il prossimo novembre sui quali attendiamo fiduciosi che i magistrati guidati con abilità e rigore del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone facciano piena luce.
Basterebbero le dichiarazioni dell’assessore Sabella o quelle del senatore Esposito per dimostrare come il governo di Roma e della macchina amministrativa sfuggisse al controllo di Ignazio Marino. Un sindaco in perenne fuga dai problemi, assente in ogni emergenza più disparata, sempre all’estero non solo negli amati Stati Uniti, non sappiamo quanto ricambiato, assai poco da quello che filtra nello staff del presidente Obama.
Questo non altro ha scavato un solco incolmabile tra la cittadinanza romana e il suo sindaco. Una inefficienza progressiva, colossale, maggiore della trascuratezza, del caos, dell’arroganza e dell’anarchia cui noi romani siamo condannati da decenni e alla quale con rassegnazione tentiamo giorno per giorno di sopravvivere.
Sarà anche dovuto al complotto dei tanti interessi che Marino ha minacciato ma non colpito, dei potenti signori degli apparati burocratici, dei detentori di vantaggiosissime rendite di posizione, fatto sta che l’improvvido muoversi del sindaco, come il proverbiale elefante in una cristalleria, ha dato loro più che una mano, una forza inaspettata, la sua caduta era solo questione di tempo. Nessun attento osservatore della politica romana poteva dubitare che il sindaco Marino non arrivasse a concludere il mandato. Mille le trappole sul suo cammino, pochi e titubanti gli alleati, troppi i nemici, milioni i romani che non ne possono più di una quotidianità infernale tra guasti di ogni tipo, scioperi, inefficienze crescenti, servizi in disfacimento.
Ignazio Marino non aveva il gradimento di una parte rilevante, forse la più retriva del PD, nemmeno di quella più nobile, votata ad una progettualità non schierata per l’antipolitica. Ha potuto contare per le primarie del PD e le elezioni su un agglomerato di interessi che vedeva in lui la figura da muovere sulle piazze, mentre l’apparato continuava a tramare, tra affari, losche frequentazioni, aggiustamenti e favori, insomma il sottobosco capitolino degli ultimi vent’anni. Occorreva non alterare gli equilibri di interesse, nessuno meglio del chirurgo antipolitico come usbergo.
Il piano, purtroppo per loro, è andato in frantumi sotto i colpi di maglio delle inchieste giudiziarie, aggravate da una tracimante inefficienza, non più bilanciata da spese fuori controllo e appalti pilotati. Il resto lo hanno creato una assemblea capitolina ormai distratta dagli interessi ante voto, una partecipazione sfilacciata, il commissariamento tardivo quanto necessario del PD romano, di cui ancora il presidente del partito Orfini non viene a capo.
Le macerie sono sotto i nostri occhi, si affollano emblematicamente tra la piazza del Marco Aurelio e il colonnato di San Pietro, tra una reprimenda in mondo visione di Papa Francesco nei confronti del sindaco, la lettera del cardinale vicario Vallini e un editoriale dell’Osservatore Romano.
Non c’è posto per marziani a Roma. Ci vogliono uomini nuovi in carne ed ossa, portatori di valori, ideali, pragmatici e solerti, infaticabili protagonisti della quotidianità dotati di una visionarietà epica, oltre che di una buona dose di utopia, alieni da velleitarismi e improvvisazione. Diogene dovrà aiutare noi romani nei prossimi mesi. Cultura millenaria e provvidenza potranno fare il miracolo laico.