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Passaggio a livello: Volkswagen: crisi economica o spartiacque politico?

volkswagen30-09-2015
Ubaldo Pacella

Un salotto lussuoso opulento ma dai toni cinerei, signore e signori fasciati in eleganti abiti da sera, sfrontati nell’esibire una ricchezza alto borghese che emerge in ogni dettaglio, volti tuttavia induriti, cupi come le parole pronunciate, che lasciano presagire un futuro catastrofico più che incerto. I piani sequenza geniali ideati da Luchino Visconti per uno dei suoi ineguagliati capolavori “ La caduta degli dei” evocano nell’immaginifico le angosce del mondo economico finanziario tedesco di fronte allo scandalo Volkswagen che si abbatte sulla potente Germania come un colpo di maglio della storia, dai contorni ancora insondabili e dalle conseguenze imprevedibili.

Provate a rivedere quelle immagini con un sottofondo musicale di Wagner e si comprende nello spazio di qualche minuto l’angoscia che attraversa l’elite tedesca da Berlino a Francoforte, da Monaco ad Amburgo.

Lo scandalo Volkswagen è molto di più di una grave crisi industriale, presenta sfaccettature non riconducibili al mero versante economico finanziario, implica responsabilità politiche e interrogativi sui modelli di gestione e sui rapporti internazionali, che trascendono la pur assai preoccupante crisi del più importante colosso dell’auto mondiale, primo produttore e padrone dei marchi con più glamour da Audi a Porsche, emblema della supremazia tecnologica teutonica nel mondo, almeno sino a dieci giorni or sono.

Le ricadute economiche sull’industria dell’auto, non solo tedesca, potrebbero essere incalcolabili, basti pensare che la timida ripresa industriale italiana ed europea è trainata in modo sensibile dalle vendite di auto, dopo anni di crisi durissima. Alcuni analisti sostengono che depurato del contributo dell’automobile il nostro Pil segnerebbe un modestissimo + 0,3%.

La preoccupata prudenza con la quale le cancellerie europee affrontano la questione la dice lunga sulle spinose ricadute del caso, capaci di propagarsi alla politica estera, agli assetti e alle decisioni della UE, al futuro di una unione sempre più sbilenca ed in affanno quando deve uscire dagli angusti steccati economici, dove la Germania regna incontrastata.

Il valore finanziario del gruppo Volkswagen raggiunge i 350 miliardi di euro, dà lavoro a 600.000 persone nel mondo, solo in Italia circa mille imprese per un volume annuo di affari di oltre 1,5 miliardi di euro.

La vicenda nella sue drammatiche proporzioni socio industriali pone in gioco ben di più: l’affidabilità, il rigore, l’onesta morale e materiale di una impresa, forse un modello di capitalismo renano che ha fatto la fortuna della Germania negli ultimi 60 anni, consentendole l’agognata riunificazione del 1989. Mettere a punto un sistema in grado di truccare le carte e certificare il falso, cioè livelli di emissioni assai lontani dalla realtà, è una truffa ordita con arrogante sicumera, per ottenere e consolidare un primato tecnologico e produttivo come prima industria automobilistica del mondo.

Un successo che non si è fermato neppure davanti ai rischi del falso, si è scelto deliberatamente di ricorrere al sotterfugio, per ridurre i costi e garantire maggiori profitti, il tutto all’ombra della forza di un marchio di fronte al quale si piegavano non solo i tecnocrati ma gli stessi Governi, di sicuro in Europa.

L’esplosione di questo scandalo mondiale non ha sorpreso gli addetti ai lavori. Molti pensavano che le altissime prestazioni dei motori diesel tedeschi non fossero compatibili con le certificazioni anti inquinamento, o meglio dovremmo dire per ridurre l’inquinamento, quella che resta una delle drammatiche priorità del pianeta, sul quale l’intera industria mondiale fa orecchie da mercante dalla Cina, agli Stati Uniti, dall’India al Brasile, dalla Russia all’Europa.

E’ andato in frantumi, in un sol colpo, l’architrave che regge l’egemonia germanica: affidabilità, tecnologia, rigore, onestà. Tutto è ormai compromesso se non distrutto. Lo testimonia l’accorata sofferta riflessione del governatore della banca centrale tedesca Jens Weidmann, quando ha ricordato che questo scandalo coinvolge e getta ombre pesanti sull’intero Paese. Lo esprimono con maggiore evidenza il silenzio, direi angosciato, dei troppi maestrini dalla penna rossa tedeschi pronti ogni giorno ad assegnare i compiti a casa agli altri, a sottolineare in blu errori o inadempienze, primo tra tutti il ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble, da giorni magicamente evaporato su tutti i mass media del continente, dopo aver predicato un ottuso rigore sul capo di milioni di europei a partire dai Greci, umiliati oltre l’esigenza e il decoro.

Seguiremo passo passo l’evolversi della vicenda Volkswagen, nei meandri più oscuri delle decisioni che verranno adottate, per sostenere, mettere in sicurezza diranno i soloni della finanza, l’industria ed evitare che produca l’ennesima catastrofe economica di questo martoriato inizio di millennio. Un cigno nero industriale dopo i troppi della finanza globale dovrebbe indurre ad una riflessione sul modello socio economico più utile per governare un mondo pervaso dagli squilibri e dalle rendite ancor più inaccettabili.

Non può sfuggire, tuttavia, ad un primo commento a caldo come lo scandalo sia partito dagli Stati Uniti. Nessuna dietrologia, chi scrive le aborrisce, resta il fatto che quello è il Paese che chiede, inascoltato, da anni una nuova politica finanziaria, economica ed estera alla Germania. La crisi industriale del settore auto ha pesato a Washington, attualmente c’è un grande rilancio di quei produttori e riconquistare il mercato perduto resta fondamentale, la crisi del concorrente più agguerrito farà comodo a molti, soprattutto oltre l’Atlantico.

La Germania ha utilizzato pesantemente con tracotante arroganza la propria forza economico produttiva. Detta le regole nella UE, controlla minutamente tutta la macchina burocratica sia in modo diretto, sia attraverso i suoi plenipotenziari, burocrati e politici degli stati “satelliti” del centro e del nord Europa. Costruisce le regole più convenienti al proprio sistema e quando, per caso, qualcuna la imbarazza semplicemente non vi si adegua. Chi ricorda lo sforamento del deficit per coprire i costi della riunificazione? Senza censure o conseguenza alcuna? Tiene fermi i negoziati e le decisioni anche per anni, sino a che non li piega agli obiettivi prefissati, è stato così anche per le emissioni delle automobili, ne sa qualcosa Marchionne, zittito senza riguardo quando la Fiat era ad un passo dal fallimento.

La Germania in questi decenni ha pensato esclusivamente a rafforzare la propria economia interna, ad espandere il mercato, a dominare le esportazioni di alta gamma e di rilevante contenuto tecnologico, senza preoccuparsi delle conseguenze internazionali delle sue decisioni. Ha ignorato, al limite del possibile, la politica estera, impaurita dalle catastrofi generate nella prima metà del ‘900. Si è mossa timidamente sul caso Ucraina solo per impulso degli Stati Uniti e per le paure dei suoi alleati del ‘est e del nord Polonia e Finlandia in primis, disdegnando il quadrante mediterraneo, che invece rappresenta lo scenario geo strategico più rilevante dell’Europa.

Cosa farà ora il Governo di Angela Merkel? Come si presenterà ai tanti tavoli negoziali? Continuerà a dare lezioni a tutti, dopo aver avallato una truffa colossale, la prima scoperta, ma forse non l’unica?

Il caso Volkswagen potrebbe cambiare molto nelle politiche socio economiche del vecchio continente, dare fiato ad altre idee, diverse dal rigore luterano, oppure sancire definitivamente quella supremazia teutonica inseguita per un millennio, conquistata non sul filo della spada ma su quello del marco ieri e dell’euro oggi.

Infortunio industriale o Stalingrado politica, il caso Volkswagen farà comunque scuola e segna uno spartiacque: nessuno è più puro, nessuno deve gettare la prima pietra.

Fonte immagine: www.dreamstime.com

Pubblicato: Mercoledì, 30 Settembre 2015 15:55