Passaggio a Livello: magistratura, legalità e populismo giudiziario
di Ubaldo Pacella
La magistratura assolve un ruolo fondamentale, soprattutto nelle democrazie occidentali avanzate. E’ il presidio della legalità costituito come tutela di tutti i cittadini, nonché della teorica uguaglianza dei diritti. Rappresenta un lungo controverso processo cui hanno contruibuito nei secoli i filosofi più illustri e i politici più illuminati, come non ricordare Tommaso Moro per il supremo rispetto della legge di fronte al potere costituito dello Stato.
La storia italiana più recente, d’altro canto, è scritta, amaramente, con l’impegno e il sacrificio di integerrimi giudici. É di questi giorni l’anniversario della strage di Via d’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino insieme alla sua scorta, poco tempo dopo la strage di Capaci e l’omicidio di Giovanni Falcone. Due nomi simbolo della lotta contro mafie e criminalità. Accanto e prima di questi eroi del nostro tempo figurano altri giudici uccisi dalle Brigate Rosse, dal terrorismo nero, dalla criminalità e anche, aggiungiamo con dolore, dalla superficialità e dalla scarsa partecipazione del potere politico, delle classi dirigenti, della collettività sociale.
Un eroismo condiviso nella quotidianità da centinaia di leali servitori della legge e dello Stato che fanno i conti con le urgenze penali e civili di una società italiana eternamente pincolante tra nequizie, furberie, raggiri, corruzione e violenza. Il tutto condito con guaiti da allarmismo di facciata, sostanziale inettitudine e mancanza di rigore.
Moltissimi magistrati descrivono con rara efficacia le contorsioni enormi di un sistema che non tutela la legalità, la certezza della pena, il rispetto delle regole e i diritti civili, in forza di una giungla normativa costruita in decenni di legislazioni approssimative che lasciano rifulgere gli Azzeccagarbugli di casa nostra, sempre pronti a trovare il codicillo, il conflitto normativo, l’interpretazione ambigua della norma che soccorra alle esigenze di qualche cliente e tuteli non lo Stato e i cittadini, bensì gli interessi di parte o persone di più che dubbio rispetto.
E’ un tema scottante quello del riordino della magistratura e della giustizia in Italia. Nervo scoperto e urticante quanto mai, tant’è che ogni Governo se ne tiene alla larga e gli interessi dei partiti si snodano in mille rivoli carsici con il risultato di produrre solo immobilismo o confusione di norme sedimentate su altre.
Questa tuttavia è l’emergenza primaria che il nostro Paese deve affrontare. Reso omaggio a quella ampia maggioritaria parte della magistratura che opera con abnegazione efficienza e rigore, restano valutazioni storiche che non possono essere annacquate, né poste nel dimenticatoio. La magistratura italiana è oggi non solo un potere dello Stato, bensì rappresenta l’espressione dello stato di potere.
E’ un’affermazione forte, lo abbiamo ben chiaro, tuttavia siamo convinti di poterne dimostrare la fondatezza. Ci soccorre in questo un rapido quotidiano giro di valzer nelle cronache dei mass media italiani.
Ci si affanna in un logorante braccio di ferro per il progetto di modifica costituzionale attualmente in terza lettura al Senato. Si invocano presidi della democrazia, pesi e contrappesi per mitigare i poteri del Governo. Non sappiamo quanto siano strumentali alcune posizioni, riteniamo per altro che nel secondo millennio la vigilanza democratica debba essere patrimonio dei cittadini e della collettività sociale, capace di utilizzare strumenti di persuasione più duttili e rapidi di norme da affidare ai tribunali. Superare lo sgangherato federalismo fiscale del 2001 è indispensabile per l’Italia per evitare una dissoluzione in salsa greca. Solo 15 anni di norme sciagurate sono costate oltre 40 punti percentuali di debito sul PIL ed una gigantesca spesa pubblica improduttiva capace di fare tracollare anche le più efficienti economie.
Abbiamo voluto ricordare questo passaggio parlamentare perché l’Italia repubblicana si è fondata, a ragione nel momento costituente del secondo dopoguerra, su pesi e contrappesi che costituissero una gabbia per i diversi poteri. Oggi questa struttura appare del tutto desueta, incapace di reggere l’urto della modernità, piombo nelle ali di ogni rapida decisione, cioè in quegli ambiti su cui si gioca il destino delle collettività e della nazione.
Un bilanciamento dei poteri che non si applica all’ordine giudiziario, la cui indispensabile autonomia pare interpretata, se non sostituita, da un’indipendenza da ogni ragione. Non si tratta di confrontarsi con la grande filosofia del diritto sulla quale ci troviamo sinceramente d’accordo, bensì sulle modalità di applicazione e sull’approccio al principio che il magistrato risponde solo alla legge. Ciò nella prassi degli ultimi decenni in Italia non è affatto vero, perché interpretazioni sempre più estensive hanno consentito ora a questo ora a quel magistrato, ora all’uno ora all’altro collegio giudicante di applicare in modo sostanzialmente difforme e sconcertante per il cittadino le leggi. Si è mandato assolto al nord Italia un cittadino per un reato, per lo stesso fatto ne è stato condannato un altro nel meridione. Ciò se del tutto accettabile a livello dottrinario, è francamente ingestibile per una collettività, poiché è bene ricordarlo leggi e amministrazione della giustizia servono a disciplinare e rendere più civile la vita della comunità, non sono un moloch insormontabile. É l’uomo per la legge, non la legge per l’uomo.
La magistratura in Italia è divenuta soprattutto negli ultimi 25 anni una sorta di corpo a sé, di potere illimitato e pervasivo. Chiamata a intervenire agli inizi degli anni ’90, per operare una supplenza nei confronti di una politica in disfacimento per corruzione e inettitudine, ha visto gonfiarsi a dismisura il proprio potere reale. Non confinato né riequilibrato da altre forme di controllo civile. Riconosciuti gli indubbi meriti di tanti giudici che cercano di frenare malgoverno, corruzione, terrorismo e malavita, resta soprattutto per gli aspetti della vita ordinaria un interrogativo inquietante: chi pone un freno allo strapotere di un giudice, sia nei confronti dei diritti della persona, sia negli atti che determina verso le imprese o la funzionalità di settori cruciali della società contemporanea?
Prendiamo a riflessione elementi eclatanti di questi giorni: l’ennesimo sequestro dell’Alto forno dell’Ilva di Taranto o quello dell’area di stoccaggio del cantiere di Monfalcone, della centrale elettrica di Vado Ligure solo per citarne i più eclatanti di queste settimane. Non c’è dubbio che vi siano delle ragioni giuridicamente sostenibili, resta il fatto che alcune decisioni, senza minimamente entrare nel merito per mancanza di conoscenza ed ignoranza della materia, sollevano numerosissimi dubbi. L’Altoforno dell’Ilva di certo continua ad inquinare, ma chiuderlo significa certificare la morte del più grande impianto siderurgico d’Europa, lasciare sul lastrico 15000 lavoratori e molte più famiglie senza ottenere la soluzione del problema e la bonifica ambientale, ma solo il fallimento dell’impresa. Ragioni di allarme pubblico per Monfalcone non sembrerebbero esserci, perché in quel caso si trattava di un’area di stoccaggio di materiali inerti di scarti lavorazione. Eppure le prescrizioni del magistrato hanno fatto si che 4500 lavoratori restassero a casa per più giorni. La centrale di Vado Ligure è certamente un polo inquinante, forse mal gestito ma da qui a sostenere che possa essere responsabile di migliaia di morti senza accurate indagine epidemiologiche affidate ad equipe internazionali ce ne corre. Eventi simbolo che hanno costretto ancora una volta il Parlamento a legiferare per decreto in una rincorsa spasmodica tra poteri dello stato per affermare una supremazia o quanto meno contenere gli effetti economici e sociali di alcune decisioni della magistratura.
Quanto ancora potrà il nostro Paese sopportare questa condizione di vassallaggio verso il sistema giudiziario che oggi in sede penale o amministrativa pervade ogni ambito sociale, dal lavoro alla camera da letto?
Le colpe della politica sono di straordinaria rilevanza.
E’ certo che questa fragilità connessa con perduranti malversazioni e incapacità consente ad un organo dello Stato uno strapotere che francamente mi va stretto come cittadino.
Occorre mettere un freno e restituire una logica equilibrata d’indirizzo al sistema giudiziario italiano da qualsiasi punto lo si voglia osservare. Il richiamo del vicepresidente del CSM Giovanni Legnini alle toghe, affinché tengano nel dovuto conto gli effetti socioeconomici delle loro decisioni, ha visto in poche ore il controcanto stizzito del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Rodolfo Maria Sabelli.
Un nuovo progetto integrale per la magistratura e la giustizia in Italia è una priorità assoluta per infondere linfa nuova alla nostra comunità. Prima di ogni altra riforma, e per questo sempre accantonata, deve esserci quella del riordino della giustizia in ogni sua articolazione. Una costruzione ex novo, moderna ed efficiente che non persegua i fini etici della filosofia giuridica ma si limiti a garantire la migliore funzionalità del vivere civile per ogni cittadino. Far questo significa spazzare via ogni interesse di parte, non coltivare insani propositi di revanscismo verso i magistrati, né affidare loro decisioni che non gli competano, ma che questi esercitano solo per l’insipienza di altri organi dello Stato e della politica. Vogliamo ricordare, per puro spirito polemico, come alcuni magistrati abbiamo imposto cure mediche, il caso stamina e Vannoni, che alla fine il tribunale di Torino, così come aveva dimostrato il Consiglio Superiore della Sanità, ha stabilito essere non solo una truffa ma un pericolo per la collettività, in questo supportato dal pronunciamento della Suprema Corte.
L’equilibrio sempre utile in politica e in democrazia diviene necessità imprescindibile quando si maneggiano i più delicati diritti dell’uomo. Dobbiamo pertanto augurarci che il vigore etico che sovente richiama i grandi principi democratici possa applicarsi alla necessità cardine di una collettività: una giustizia serena, equa e responsabile, esercitata nella tutela del bene collettivo e nella consapevolezza di dover rispondere dei propri atti. Nessun potere può e deve essere insindacabile, perché questo rischia di tradursi inevitabilmente in arbitrio. E’ un passaggio di civiltà molto aspro e difficile, soprattutto per debordanti populismi che affliggono l’Italia in questi anni. Cambiare volto alla giustizia è possibile, lo dobbiamo a noi stessi, ai magistrati, al futuro di un Paese avanzato, che non debba farsi bacchettare dall’Unione Europea o suscitare perdurante distacco dai cittadini, perché’ troppo ampio è lo iato tra la richiesta di giustizia e il tempo, i modi e le forme con le quali questa viene esercitata.