Passaggio a livello: Giustizia da rifondare magistratura da modernizzare
02-07-2015
Ubaldo Pacella
La recente sofferta decisione della Corte Costituzionale , in merito al blocco dei contratti del pubblico impiego, lascia scaturire alcune riflessioni che in alcun modo entrano nel merito giuridico di una sentenza, sia perché è infinita l’ignoranza di chi scrive in materia, ancor più perché si è certi che la suprema retorica del “diritto”, nei suoi infiniti cavilli è stata delibata con acribia dai giudici costituzionali.
Le questioni sono molteplici, a ben vedere, richiamano compiti, ruoli ed efficacia della giustizia in una società moderna. I tempi, l’efficienza, le conseguenze possono essere per i giudici togati di ogni ordine e grado un elemento insignificante? L’esercizio della giustizia che non è di natura soprannaturale, bensì una convenzione sociale per il miglior funzionamento della vita civile, può continuare a chiamarsi fuori dal contesto storico, in funzione della mera applicazione di principi giuridici sempre più astratti e fumosi, nei quali il cittadino fatica a riconoscersi? Non sono interrogativi retorici, ma questioni cruciali per la vita di una comunità, il suo ordinato evolversi, l ‘innovazione in un campo strutturalmente conservatore.
La decisione della Corte Costituzionale sul contratto dei dipendenti pubblici rafforza i diritti dei lavoratori e questo è comunque un fatto positivo. Sarà davvero così per tutti o introduce un doppio binario tra pubblico e privato? Se i dipendenti dello Stato hanno diritto ad avere un contratto e il blocco è illegittimo, si dovrà mettere mano subito a tutti gli altri? Considero ingiusto, almeno in parte, che da cinque anni gli statali non abbiano rinnovato il contratto, ma ritengo ancor più iniquo che altre categorie vedi il trasporto pubblico non lo abbiano da oltre sette anni e nel contempo si sia dovuti ricorrere a cassa integrazione, mobilità, esodi incentivati e altri strumenti di sostegno al reddito per far quadrare i bilanci, soprattutto da parte di società controllate dagli enti locali, sovente al 100%.
Se c’è un diritto al contratto può essere richiamato dai giudici costituzionali solo per i lavoratori più protetti? Vogliamo ricordare che statistiche alla mano i pubblici guadagnano più dei privati. Nessuno di loro ha perso il lavoro contro milioni di licenziati negli ultimi cinque anni, nessuno è ancora in cassa integrazione a zero ore o in mobilità, nessuno o quasi ha subito una decurtazione netta del salario come capitato a molti altri. L’orario di lavoro è rimasto fissato a 36 ore per larghissima parte degli statali, mentre altre categorie hanno visto aumentare e di molto la produttività per consentire alle imprese di competere.
Si può chiedere al cittadino onesto che paga le tasse per mantenere un sistema non troppo efficiente con circa tre milioni di lavoratori pubblici di fare ancora più sacrifici per garantire ad alcuni i diritti che crisi o scelte economiche limitano per altri, in modo fin troppo rigoroso e incisivo? Quale parallelismo corre tra un imprenditore che a corto di commesse e di richieste di mercato applica contratti di solidarietà e ammortizzatori sociali, nel migliore dei casi per evitare gli ancor più traumatici licenziamenti e uno Stato che ai limiti dell’insolvenza, ricordiamo il famigerato spread a 570 punti del novembre 2011, decide di congelare gli stipendi dei propri dipendenti.
Il cittadino semplice, come chi scrive, si pone interrogativi che sono il nocciolo di quel patto sociale che fornisce alla magistratura legittimità e indipendenza. Le scelte dei giudici rispondono, è comprensibile e giusto, solo alle leggi. Queste ultime allora debbono essere modernizzate di gran carriera pena il frantumarsi della coesione sociale, quel delicato equilibrio tra diritti, doveri, solidarietà, inclusione, rispetto e tolleranza che consente ad una comunità di evolversi, non solo dal punto di vista economico, ma ancor più da quello dell’integrazione sociale.
La giustizia in Italia sembra una malata terminale da ogni angolazione la si osservi. E’ fonte di disagio per il cittadino, di ostilità per le imprese, di lontananza per gli investitori. I suoi tempi sono intollerabili per tutti. Le procedure inefficienti e distorsive sia per i reati penali, sia per quelli civili o amministrativi. Tutte le decisioni trovano un collo di bottiglia tra Tar e tribunali, vedi effetto De Luca. Le sentenze piovono, si pensi alle pensioni, su Governi Ignari o su amministratori diversi da quelli sanzionati. La massa critica dei ricorsi o delle cause, in mancanza di nuove leggi efficienti e al passo con i tempi, è tale da provocare una perdurante paralisi. E’ di questi giorni la denuncia del presidente Santacroce secondo il quale la suprema Corte di Cassazione è travolta dai ricorsi pendenti, la maggioranza dei quali, per le cause civili, supera di poco il valore di cinquemila ( si avete letto bene 5.000!) euro. Unico mezzo per uscire da questo girone dantesco è una revisione costituzionale.
L’Italia ha necessità assoluta di un nuovo quadro normativo, capace di cancellare, come un clic al computer, migliaia e migliaia di leggi confuse, contraddittorie, la cui interpretazione genera mostri che turbano la vita di ogni cittadino, non troppo diversamente da quanto avveniva prima dello spartiacque della rivoluzione francese.
La storia oltre l’economia corre a ritmo vertiginoso, che la politica insegue con immensa fatica, mentre la giustizia procede con una scansione ottocentesca delle regole, apparentemente ignara di ciò che determina con le sue decisioni, inappuntabili, nel migliore dei casi, come amano esprimersi i raffinati giuristi, in punta di diritto, ma oltremodo lontane dalle esigenze di funzionamento di una moderna società democratica, liberale e pluralista.
La rivoluzione copernicana dell’ordinamento giudiziario italiano è a mio avviso la posta più riformatrice di un Parlamento progressista. Una sfida che Renzi non può in alcun modo sostenere, che vede interessi ciclopici in atto, basti pensare a quanti reati di ogni genere restano impuniti, che gli attuali eletti non sarebbero in grado di gestire nemmeno nei primi timidi passi, per le contraddizioni che sarebbe destinata a far emergere, per l’onda di populismo becero e melmoso che solleverebbe.
Auspichiamo che diventi la bandiera di un rinnovato protagonismo dei cittadini, un rilancio etico oltre che economico del nostro Paese, affidato all’ardire e alla visionarietà di chi mette l’uomo al centro dei propri interessi, perché le regole sono fatte per aiutarci a vivere civilmente, non debbono essere una gabbia per i più deboli, mentre i forti prosperano allegramente sulla prevaricazione e sull’inefficienza diffusa.
Fonte immagine : www.senzanubi.it